Ogni giovedì mattina, la Risolartista si metteva a fare il pane.
Si svegliava qualche minuto prima del solito e, dopo il suo rituale yoga, dava da mangiare alla sua Trementina.
Chi era questa Trementina? Niente di meno che il lievito madre in persona! Il lievito madre domestico della Risolartista, ovviamente. Se siete curiosi, vi dò anche la spiegazione del nome…
Come un pittore utilizza la trementina (che è un solvente) per farsi aiutare a mescolare i colori a olio e dipingere la sua tela, così la Risolartista si avvaleva della sua Trementina per far lievitare il pane. Senza Trementina, niente pagnotte fragranti.
Ritornando al giovedì mattina, e all’ora di colazione per la precisione, era quello il momento in cui l’artista panificatrice (non “panettiera”, ma “panificatrice” mi raccomando) rinfrescava il lievito madre. Ossia, gli preparava una bella ciotola di acqua e farina, che i lieviti madre domestici preferiscono di gran lunga a biscotti e caffellatte.
Una volta fatto ciò, il pezzetto di Trementina che avrebbe usato per il suo pane veniva messo a lievitare sotto un canovaccio, in un angolo riparato della cucina.
Riparato non tanto dalle correnti d’aria fredda (a luglio se ne trovavano ben poche…), ma dal Babbo, che era sempre pronto a fare pasticci. Assonnato com’era di prima mattina, finiva spesso per scambiare il canovaccio del lievito madre con quello canonico per asciugarsi le mani. Numerose erano le volte in cui l’aveva preso per sbaglio, facendo precipitare a terra la povera ciotolina (ovviamente di porcellana!) con il pezzetto di Trementina! Meglio non rischiare ancora…
Tutta la mattina passava tranquilla, con la Risolartista che rimaneva immersa nelle sue creazioni (e nel suo smart-working domestico), e il lievito che fermentava allegro e solitario.
Finché, non giungeva il mezzogiorno. Ora di pranzo per i comuni mortali, ora di pranzo e di impasto anche per le aspiranti pagnotte.
La piccola panificatrice apriva la dispensa, sceglieva quale miscuglio di farine utilizzare quella volta, e si metteva a impastare. Non c’era mai un miscuglio uguale all’altro: erano così tanti i pacchetti di farina stipati in cucina, che era sempre possibile una combinazione diversa. Segale, grano tenero, Perciasacchi (scommetto che non lo conoscete), Timilia: nomi curiosi almeno quanto i loro relativi sapori. L’unica costante era la parola “Integrale” stampata su ogni etichetta. Erano anni ormai che in Via Cassano d’Adda non entrava più una triste e noiosa farina 00…
Quel giovedì di luglio, la Risolartista si fece tentare dal grano tenero integrale che veniva dagli Abruzzi: una farina speciale, che si era fatta inviare in quantità più che industriale (circa 8 chili!) da un mulino di sua conoscenza. Il pane avrebbe avuto il sapore dei campi mediterranei abruzzesi: era proprio adatto con la stagione estiva in corso!
Fatto l’impasto, rigorosamente a mano, con le sue manine da artista, quello venne messo a lievitare ancora, mentre la famigliola pranzava, riunita dopo i vari lavori mattutini.
Nel pomeriggio, la pagnotta fu formata, e poi messa in un nuovo recipiente (il cosiddetto “cestino di lievitazione”)… a lievitare ancora. In frigo, però.
Avrete capito come il pane della Risolartista fosse un pane a lunga lievitazione: ventiquattr’ore in tutto. Quella pagnotta appena fatta sarebbe andata in forno solo l’indomani mattina.
Il giovedì in questione non era solo un giovedì di pane. Si rivelò ben presto anche un giovedì di lavori nell’orto.
Quel pomeriggio, la Mamma Monica e la sua figlioletta, con Artemisio al seguito, pensarono bene di andare a fare una visita all’orto del Nonno Sergio, per controllare che tutto fosse in ordine.
Era luglio, e i nonni erano beati al mare, a prendere il sole, e fare quotidiani bagnetti nelle acque di Arma di Taggia. Avevano dunque lasciato (con il solito timore che qualcosa andasse storto…) il loro prezioso terrazzo (e orto) nelle mani di figli e nipoti.
Quando le due aspiranti giardiniere (e il cane controllore) furono giunte in Viale Bacchiglione, e salite fino all’ultimo piano della casa dei nonni, trovarono una sorpresa ad accoglierle.
Una sorpresa buona, per fortuna. E non il solito impianto di irrigazione che non funzionava…
L’orto del Nonno Sergio era pieno di macchie vermiglie. Non solo vermiglie, in realtà. Vermiglie, scarlatte, e persino alcune arancio e verdolino.
Cos’erano? Pomodorini! Una montagna di pomodorini finalmente maturi e desiderosi di essere raccolti. E non erano pomodorini comuni, bensì i “datterini”: i pomodorini più dolci e succosi che ci potessero essere. Le cure del Nonno Sergio dei mesi precedenti, poi, avevano dato i loro frutti. Ogni piantina era carica di grappoli variopinti che fin dal primo assaggio (fatto da Artemisio, che era silenzioso, ma sempre goloso) promettevano proprio bene…
La raccolta avvenne in breve, e un cestino colmo di corpuscoli rossi giunse al sicuro in Via Cassano d’Adda, pronto per essere gustato.
In realtà, il bottino della gita a casa dei nonni non fu solo fatto da datterini, ma anche da un curioso esemplare di Aglio di Vessalico. Si trattava di un bulbo speciale, che l’artista stessa aveva consigliato al Nonno Sergio di piantare durante l’inverno precedente. Il Nonno aveva accolto il suggerimento, e aveva avuto successo anche in quella produzione. Quella piccola testa d’aglio (la varietà di Vessalico è molto più piccola delle altre) aveva un aroma davvero invitante…
L’indomani mattina, l’aspirante pagnotta divenne realtà. Dopo ventiquattr’ore di lievitazione, la panificatrice recuperò la sua creazione, la cosparse di farina e semi di lino, e la infornò per più di un’ora.
Il risultato prometteva proprio bene. Anzi, benissimo. Il pane appena sfornato era tanto invitante, quanto i datterini e l’aglio del Nonno Sergio! Per creare un vero capolavoro d’artista, occorreva assemblare in un’unica opera quegli ingredienti.
Detto fatto. La Risolartista ebbe l’ispirazione gastronomica, e si mise a comporre la sua bruschetta. Pane con lievito madre ancora tiepido, una passata di Aglio di Vessalico e un giro d’olio d’oliva (chiaramente umbro!). Infine, una montagna di datterini a tingere di rosso la tela.
Non avrebbe potuto creare una bruschetta migliore. Una bruschetta in forma di tavolozza, fatta con i colori dell’orto del Nonno Sergio, e con una bella fetta di pane appena sfornato.
… tutto merito dei datterini e del lievito madre.
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