L’ARTISTA
Giovanni Bellin (1430-1516)i, detto il Giambellino, si può definire il padre del Rinascimento a Venezia.
Già le origini familiari fanno anticipare la sua fama pittorica: il padre era Jacopo Bellini, noto artista del tempo; il fratello Gentile, artista pure lui; il cognato (sposo della sorella), infine, divenne presto il Mantegna. Insomma: da uno che si formò nella fiorente bottega del padre, e che si ritrovò sempre circondato da importanti figure, non ci si poteva che aspettare grandi cose…
Cominciamo con un po’ di contesto della Venezia del tempo.
A metà Quattrocento, la città lagunare si apriva alla terraferma, come testimoniava la conquista di Padova nel 1405. Conquista che, si rivelò molto importante “culturalmente” parlando, in quanto Padova aveva un’università, nonché era punto di ritrovo di molti celebri artisti toscani dell’epoca. Donatello, Paolo Uccello, Ghiberti e Alberti: tutti nomi importanti che si ritrovarono a lavorare nella Serenissima, giunti forse per seguire Cosimo il Vecchio che, durante il suo esilio, si era rifugiato lì.
In tutto questo fervore culturale, comparve la figura di Giovanni Bellini, il quale abbandonò presto il tardogotico, per guardare alle novità mantegnesche, poi a quelle di Piero della Francesca, e di Antonello da Messina.
Tra le sue opere, ricordiamo la “Pietà” (oggi a Brera), di chiara ispirazione del Mantegna; oppure “l’Allegoria Sacra”; o ancora l’enorme telerio (iniziato dal fratello, e poi da lui concluso) raffigurante la “Predica di San Marco ad Alessandria”.
LA SUA PITTURA
Punto di partenza dell’opera del Giambellino è Andrea Mantegna: ancor prima di diventare suo cognato, ne fu in un certo senso “maestro”.
Se si guarda al Polittico di San Luca di Mantegna (conservato a Brera), si può notare in alto un Cristo morto che non è poi molto diverso da quello della celebre Pietà del nostro artista (sempre a Brera).
Tuttavia, elementi di differenza sono le figure rappresentate a dimensione reale, con grande umanità, che vogliono rendere lo spettatore partecipe della scena. Sarà questa umanità, la chiave per inaugurare il Rinascimento a Venezia, superando l’idealizzazione gotica.
Le somiglianze spiccano di più, però, se confrontiamo l’Orazione nell’Orto (Mantegna), con la Trasfigurazione (Bellini). Il paesaggio roccioso è lo stesso, così come la linea aspra e dura che emerge nei personaggi; linea che ricollega il Mantegna all’arte classica, da cui era solito prendere spunto.
Con la Pala di Pesaro, Bellini evolve ulteriormente la sua pittura, avvicinandola a quella di Piero della Francesca: ecco la luce (ispirata ai Fiamminghi), che investe tutti i personaggi, conferendo morbidezza e brillantezza. La differenza tra i due sta nel fatto che, mentre Piero utilizzava la luce in modo “intellettualistico”, l’altro ne fa espressione di naturalezza: il suo intento è conferire estrema umanità.
Infine, l’ultimo tratto della sua arte è caratterizzato da una propensione al tonalismo di Giorgione, con figure che ormai diventano dipinte soltanto con il colore, e non più con la linea.
LA PREDICA DI SAN MARCO AD ALESSANDRIA
Ecco a voi uno dei più grandi teleri che siano mai stati realizzati (7,70 metri di larghezza, e 3,50 di altezza!), dipinto da Giovanni Bellini per la Scuola veneziana di San Marco.
Prima di tutto, ci si può chiedere cosa sia un telero. Si tratta di un tipo di pittura che veniva fatta su grandi tele, poi applicate alle pareti delle stanze. In pratica, era il “sostituto” degli affreschi in luoghi molto umidi (come Venezia), in cui essi sarebbero sopravvissuti ben poco…
In realtà, citare solamente Giovanni come autore è scorretto: l’opera fu cominciata dal fratello Gentile, e poi portata a conclusione dal primo. Curiosissima è la vicenda legata a questa successione di realizzazione: pare che il povero Giovanni fosse stato costretto a terminarla da una sorta di ricatto testamentario.
Il testamento di Gentile, infatti, comprendeva una clausola insolita: il prezioso taccuino dei disegni paterni (in suo possesso) sarebbe stato ereditato dal fratello solamente dopo che questi avesse finito l’enorme telero.
Volente o nolente, Giovanni si impegnò ben bene in questa Predica di San Marco, che è un autentico capolavoro ricco di dettagli e storie da raccontare.
Lo stile è caratterizzato da un’assenza di profondità spaziale, dovuta al fatto che, nell’originale ubicazione dell’opera (nella Scuola), si doveva facilitare la lettura in orizzontale. Ci sono, infatti, due piani paralleli di narrazione: lo sfondo con il contesto esotico arabeggiante, e la predicazione di San Marco in primo piano. E non c’è neppure un unico punto di fuga (come era tipico nei lavori di Gentile), malgrado Giovanni abbia tentato di correggere questa imperfezione spaziale.
Partendo dallo sfondo, opera di Gentile, subito si notano le architetture esotiche, frutto del suo viaggio a Costantinopoli, in cui aveva avuto occasione di vedere la chiesa di Santa Sofia e l’arte dei Turchi Mamelucchi. Questa, insieme alla Basilica veneziana di San Marco, fu lo spunto per realizzare quella moschea-basilica maestosa che compare al centro.
La piazza, in realtà, non è quella turca, bensì quella (fantasiosa) di Alessandria d’Egitto, alle cui spalle spuntano obelischi e minareti.
Gli edifici più in primo piano colpiscono per il loro essere “spogli”, in contrasto con la ricchezza del resto. Casualmente (o forse no!) si tratta di parti dell’opera realizzate proprio da Giovanni…
La mano di Gentile torna ancora nei cammelli, nella giraffa, e nei dromedari, che passeggiano in lontananza.
Veniamo alla scena sacra, con il San Marco che predica su un palchetto, attorniato da una folla pittoresca. Pittoresca, perché comprende tanto veneziani dell’epoca, quanto ottomani con rispettivo turbante. Per non parlare, poi, delle donne turche rivestite di bianco: altro dettaglio che non pare esattamente contemporaneo al santo.
Se foste stati cittadini della Serenissima del ‘500, probabilmente sareste anche stati in grado di riconoscere molti vostri concittadini. Infatti, tra le figure accalcate, pare vi siano i membri della Scuola di San Marco, alcuni dignitari e altri personaggi di spicco di allora. E non manca neppure Dante: eccolo lì, con la corona d’alloro, che vuole sottolineare il fatto che Venezia avesse recentemente conquistato Ravenna (luogo di sepoltura del Poeta).
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