L’ARTISTA
Paolo Caliari, meglio detto Veronese per essere nato a Verona, nacque nel 1528, quando allora quella città era parte della Repubblica di Venezia. Dopo un primo apprendistato vicino a casa, si trasferì presto nella Serenissima, dove fu incaricato di decorare i soffitti del Palazzo Ducale.
In poco tempo, il nostro artista cominciò a distinguersi per il suo peculiare “colorismo”, ossia uno spettacolare uso del colore, associato a splendide composizioni. Ciò per cui divenne famoso erano le sue “Cene”: immense narrazioni scenografiche di episodi evangelici, che avevano ben poco di sacro, e molto di profano. Alcune sue opere (tra cui l’Ultima Cena, poi rinominata Cena n casa di Levi) furono addirittura citate a processo dal Tribunale dell’Inquisizione, che voleva condannarlo per la sua irriverenza. Per fortuna, sostenendo di aver semplicemente arricchito la tela (enorme) con particolari aggiuntivi per “riempire lo spazio” altrimenti troppo vuoto, riuscì a cavarsela senza grossi guai. Gli bastò cambiare il nome al dipinto più criticato, e poté continuare la sua produzione artistica ancora a lungo…
Gli ultimi anni furono caratterizzati da un nuovo stile, un po’ tizianesco, con accenni patetici, visibili nell’Orazione nell’Orto (a Brera), fin quasi a raggiungere una sensibilità antesignana del barocco.
LA SUA PITTURA
Per il suo incredibile uso del colore, impiegato in composizioni scenografiche grandiose, il Veronese è annoverato tra i più grandi esponenti della pittura veneziana, assieme al Tiziano e al Tintoretto. Lo si potrebbe definire persino il più celebre decoratore di tutti i tempi: i suoi impianti teatrali ricchissimi di dettagli e architetture testimoniano i fasti della Serenissima cinquecentesca in modo grandioso.
La mano del Veronese si riconosce prima di tutto dalla sua tavolozza cromatica: accesa, ma delicata; variopinta, ma armoniosa. Poi, c’è sempre quel gusto per le scene teatrali, che mettono insieme innumerevoli personaggi dialoganti tra loro, spesso rivolti direttamente a noi osservatori. Ancora, vanno citate le architetture, e panneggi e gli abiti a lui contemporanei, che ci immergono pienamente nell’atmosfera veneziana del tempo. Ultimo elemento è la tematica della “cena”: l’artista doveva essere un appassionato (e conoscitore) dei banchetti e delle regole di servizio che caratterizzavano i banchetti cinquecenteschi…
LE OPERE
LE NOZZE DI CANA
Prima ancora di parlare del contenuto dell’opera, vale la pena raccontare qualcosa sulla storia dell’opera stessa.
Era il 1797, quando la tela fu letteralmente smontata dalla parete del refettorio del monastero di San Giorgio Maggiore a Venezia. Era il 1797, quando la tela fu tagliata in due pezzi, arrotolata, e poi portata fino al Louvre parigino, per volere di Napoleone. Da allora, malgrado i molteplici tentativi di rimpatriarla, l’opera è rimasta lì, accanto alla Gioconda, senza possibilità di convincere i francesi a una sua restituzione.
Ma passiamo alla scena immortalata: l’episodio evangelico delle Nozze di Cana, trasformate in un banchetto rinascimentale del tempo.
Abbiamo due registri distinti: uno superiore, con il cielo azzurro, dalla nuvolaglia che sfiora le teste dei servitori affaccendati; uno inferiore, in cui ha luogo l’affollatissimo ricevimento. Sembra quasi di percepire il brusio di tutta quella gente che dialoga e armeggia lungo tutta la tavolata! Non fosse per le due aureole sopra il capo del Cristo e della Madonna al centro, non ci si ricorderebbe neppure di essere davanti a una scena sacra…
Per quel che riguarda la vera storia del Vangelo, è Giovanni a narrarci il miracolo avvenuto durante le celebrazioni nuziali a Cana, quando Gesù aveva trasformato l’acqua in vino, compiendo il suo primo miracolo. Questo è il punto di partenza; la fantasia del Veronese, però, galoppava rapida e lontana.
Ecco che le nozze evangeliche diventano un banchetto con circa 130 persone, riconducibili ora alla Bibbia, ora alla Venezia a lui contemporanea.
Per raccontare di tutte quelle trovate curiose che ebbe l’idea di inserire nella scena, possiamo partire dal centro, ossia da quel gruppo di musicisti che paiono tanto concentrati sui loro strumenti. Ebbene, quello vestito di bianco, pare sia il Veronese stesso; quello in rosso, che suona il violoncello, è Tiziano; mentre quello col flauto è Jacopo Bassano. Infine, il personaggio barbuto in verde, proprio accanto all’artista, sarebbe il poeta Pietro Aretino, molto apprezzato all’epoca.
Non mancano neppure gli animali: i due cani legati l’uno all’altro in primo piano; il gattino sulla destra che giocherella con l’anfora.
Se ci concentrassimo sugli invitati del banchetto, riconosceremmo tanto personaggi evangelici, quanto insoliti nobili veneziani, orientali in turbante e servitù a profusione di ogni colore di carnagione.
Allargando il punto di vista, notiamo come la scena sia inserita in un contesto architettonico teatrale e scenografico, tipico dell’artista, con un chiaro omaggio alle Ville del Palladio. Tutto è impeccabilmente definito: dalle posate, alle stoviglie. Per non parlare, poi, delle pietanze servite sulla tavola, tra le quali identifichiamo con certezza le mele cotogne.
Come mai raffigurare proprio delle mele cotogne? Si trattava di un frutto spesso associato al matrimonio, in quanto richiamavano i “pomi d’oro” della mitologia, custoditi dalle Esperidi sull’isola di Creta. Tali frutti furono donati da Gea in occasione delle nozze di Era e Zeus: da allora, divennerosimbolo di fecondità e amore.
L’ultima menzione è un complimento all’autore, relativamente alla sua attenzione nella scelta dei colori. O meglio, nella scelta dei pigmenti: grazie alla sua selezione delle materie prime orientali più costose e di miglior qualità, ancora oggi possiamo ammirare le tinte sgargianti sopravvissute ai danni del tempo.
CENA IN CASA DI SIMONE
Ecco una seconda Cena, che segue le Nozze di Cana, e ha una “sorella” con il medesimo soggetto conservata a Torino. Questa, però, si trova oggi a Brera.
Subito si nota l’imponente scenografia architettonica, ripresa dalle Ville del Palladio, che l’autore aveva avuto l’occasione di decorare personalmente. L’aspetto è quello di una lussuosa villa di campagna, con un bel giardino che si intravvede oltre il portale centrale. L’effetto finale è maestoso, grazie anche ai due tavoli a L, riprodotti “sott’in su” che ci danno l’idea di un banchetto importante. A giudicare dalle portate (innumerevoli torte, gelatine e piattini raffinati), sembra di essere invitati a un tipico banchetto delle corti rinascimentali.
L’episodio della cena a casa di Simone, infatti, è calato in un contesto contemporaneo al pittore: una delle tante feste mondane della Venezia del ‘500. Oltre al cibo, non mancano le vesti lussuose, le stoviglie e il servizio reso in modo impeccabile, così come la disciplina dello scalco richiedeva.
A sinistra, compare la Maddalena che unge i piedi di Cristo con l’olio profumato; è lì che convergono gli sguardi di molti presenti, invitando il pubblico a indirizzarsi in tal modo a sua volta.
Attorno al racconto evangelico, però, la fantasia del Veronese ha voluto creare una serie di dettagli curiosi, che arricchiscono la scena. Spicca il servetto dalla carnagione scura (tipico della Venezia del tempo); spicca anche il cane bianco, colto nell’atto di giocherellare con un altro compare e un povero micio stuzzicato…
CENA IN CASA DI LEVI
È questa l’ultimo telero appartenente alle serie delle celebri “cene” del Veronese, realizzata per il refettorio del convento di San Giovanni e Paolo. Fu proprio quest’opera a essere al centro della “censura” attuata dal tribunale dell’Inquisizione, che aveva accusato il pittore di aver profanato l’episodio evangelico, trasformandolo in un banchetto secolare. In particolare, gli inquisitori ebbero da ridire su alcune insolite figure inserite nella scena (decisamente assenti negli eventi della Bibbia), quali: il servo che perde sangue da naso; il buffone nano con il pappagallo, e alcuni alabardieri armati “alla tedesca”. Per difendersi, il Veronese ribadì il suo diritto di arricchire la scena con ornamenti a completamento del dipinto altrimenti troppo vuoto, viste le dimensioni.
Vista la giustificazione non troppo soddisfacente, l’artista fu costretto a cambiare il nome del telero, che, da “Ultima Cena”, divenne “Cena in Casa di Levi”.
Avendo in mente il soggetto originale, ossia l’Ultima Cena, guardando alla tavolata così animata di persone intente a discutere, viene da pensare all’analogo capolavoro di Leonardo. In effetti, in entrambi vi è una grande attenzione alla psicologia dei personaggi, malgrado le notevoli differenze. Qui abbiamo un’ambientazione tipica di una ricca corte cinquecentesca, di terra veneziana, con loggia tripartita da due ordini di archi a tutto sesto. La parete alle spalle degli invitati è completamente affrescata, e immortala uno sfondo cittadino.
I dodici apostoli circondano Cristo, in compagnia di una folla di invitati che superano la cinquantina. Tra questi, si riconosce l’intera gerarchia sociale dell’epoca: dai servi di carnagione nera (che ci fanno capire il potere di Venezia esteso fino all’Africa), alle guardie armate, ai giullari, ai nani ubriachi che si appoggiano ai corrimani.
In una sola scena abbiamo un sunto della società contemporanea del Veronese, che mette insieme innumerevoli tendenze. Troviamo lo schiavismo(bianco e nero), la servitù, il mondo classico, gli animali domestici, la religione (poca!) e il comico dei giullari-nani. Per non parlare, poi, dei piaceri terreni: il banchetto è l’emblema dell’abbandonarsi alle delizie della gola e del divertimento.
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