Sette metri e mezzo di telero occupavano l’immensa parete della sala braidense.
Sette metri e mezzo invitavano il visitatore prima a osservare l’opera da lontano, per poi avvicinarsi ad apprezzare i dettagli.
Fu nell’accorciare la distanza tra lei e la tela, che la Risolartista cominciò a sentire un certo tepore di aria africana: quella di una tipica mattinata a due passi dal deserto. Al contempo, anche un certo profumino di spezie abbrustolite galleggiava nella stanza, inducendo ad andare ancor più vicino alla superficie del quadro, per cercarne l’origine…
Un attimo, e l’artista si ritrovò nel mezzo del telero. Neppure il tempo di pensare se saltare o no dentro quel quadro avventuroso, e già la folla di Alessandria la schiacciava da ogni parte.
Tanto valeva godersi la gita in quell’insolita capitale egiziana, che aveva molto del magico, e ben si distaccava dalla noiosa realtà.
In effetti, per essere Alessandria, era piuttosto strana. Era una rappresentazione insolita, che riprendeva un po’ la vera città africana, ma un po’ anche Venezia. Comprensibile, data l’epoca a cui risaliva il telero (per chi non sapesse cosa sia, il telero è un “sostituito” dell’affresco fatto su tela, così da resistere ai posti umidi come la laguna veneta), ossia al lontano 1500. A quei tempi, era già tanto se l’artista era stato una volta in gita ad Alessandria: non si potevano pretendere fotografie dettagliate da usare come modello! L’autore, per fortuna, un viaggetto laggiù l’aveva fatto davvero: il signor Gentile Bellini aveva visto il mondo arabo con i suoi occhi.
Mettendo insieme i suoi ricordi con ciò che aveva sotto il naso tutti i giorni (ossia Venezia), era riuscito a creare un capolavoro di scenografia arabeggiante, e insolitamente veneziana. Gli edifici attorno alla piazza erano tipici del mondo musulmano, ma la grande moschea al centro pareva ora Santa Sofia, ora San Marco…
Si poteva forse dare la colpa al fratello minore, il signor Giovanni Bellini (il Bellini veramente famoso!), che era stato “gentilmente” costretto a portare a termine l’opera. L’altro infatti, defunto prima di concluderla, aveva scritto nel suo testamento che, se Giovanni voleva ereditare un preziosissimo quadernetto di loro padre, doveva prima finire l’immenso telero! Un ricatto? Perché no?! Indipendentemente dall’intento, era chiaro che il Bellini (Giovanni) non dovesse avere molta voglia di impegnarsi a correggere i pasticci del fratello (di pasticci “prospettici” ce n’erano non pochi…!). Dunque, non si curò di andare in gita anche lui in Arabia, per prendere spunti realistici sulle loro architetture, ma raffigurò cose più semplici e a lui note.
Tutto ciò, per dire che l’Alessandria che la Risolartista si trovava attorno era molto curiosa: unica nel suo genere.
Curiosissima era anche la folla in primo piano, in cui si trovava in quel momento immersa. C’erano i turchi ottomani (facile aspettarseli ad Alessandria!), con tanto di turbanti bianchi, ma c’erano anche i Veneziani. Eh sì: ad ascoltare il San Marco che predicava sul podio a sinistra, non mancava un bel gruppetto di tipici aristocratici della Serenissima dell’epoca, con bellissimi abiti cinquecenteschi. E poi, ancora, colpivano l’occhio quelle donne arabe tutte velate di bianco, con dei cappelli nascosti sotto il velo che le facevano sembrare fantasmi.
La Risolartista guardava affascinata quella gente insolita, che sembrava non notarla neppure. Erano tutti concentrati sulle parole del santo, che stava predicando chissà quale messaggio evangelico. Meglio allontanarsi dalla folla, e andare a vedere la moschea più da vicino.
Proprio mentre se ne stava andando dal centro della piazza, non poté fare a meno di soffermarsi su un volto particolare, con una corona d’alloro in testa. Vedere una corona d’alloro ad Alessandria era ancor più strano che trovarci edifici di gusto veneziano. Una spiegazione, però, c’era; e lei se la ricordava bene. Quel personaggio in questione era Dante. Che ci faceva laggiù? Semplice: era un modo simbolico che l’artista aveva voluto usare per sottolineare come, in quel periodo, la Repubblica di Venezia fosse riuscita a conquistare Ravenna (città in cui il Poeta era sepolto).
Colpita da tanta arguzia, passeggiò fino ai piedi della scalinata che conduceva all’enorme edificio dorato. E lì fece un incontro molto speciale…
Mentre si sforzava di vedere i dettagli della facciata (con scarsi risultati, vista l’altezza dell’edificio), qualcosa cominciò a solleticarle la spalla. Era una giraffa.
Una giraffa: proprio così. Una giraffa dal musetto dolce e simpatico, con delle belle macchie color caffellatte che la ricoprivano dalle zampe alle orecchie. Che cosa voleva da lei? … Voleva aiutarla ad ammirare meglio la moschea.
L’animale abbassò la testa, invitando la Risolartista a montarle in groppa. La ragazzina non esitò: quando le sarebbe ricapitato un simile privilegio?!
A cavallo della sua nuova amica giraffa, ogni particolare della costruzione si apprezzava davvero bene: ogni colonnina, ogni finestra, ogni ricamo dorato, le si fissava in quel momento nella sua eterna memoria. Non avrebbe mai dimenticato quella moschea arabo-veneziana di quell’Alessandria d’Egitto fantasiosa. E tutto grazie a una giraffa!
Soddisfatta del tour attorno all’edificio, propose alla sua cavalcatura d’eccezione di trotterellare ancora un po’ per la città. Aveva ancora tempo, prima di dover tornare a casa (l’ora di chiusura di Brera era lontana).
In groppa all’amica giraffa, l’artista cominciò a curiosare qua e là, tra quegli edifici bianchi e squadrati, dipinti quasi certamente da Giovanni. Lì, immersa nel telero, le mani dei due artisti si distinguevano proprio bene. Gentile aveva fatto lo sfondo, con la moschea, le palme, e, probabilmente, anche l’obelisco e le torri che gli stavano accanto. Si era occupato del “setting” della scena, insomma. Anche la giraffa doveva essere opera sua, così come i cammelli che si incontravano di tanto in tanto.
Il fratello minore, invece, si era dedicato alla folla in primo piano: i dolci lineamenti dei volti, molto naturali, provenivano senz’altro dalla sua abile mano. Gli edifici più semplici (sempre sul davanti) erano ancora suoi: lì si vedeva la scarsa voglia di impegnarsi a riprodurre l’Arabia, che non gli doveva essere molto nota…
Mentre passavano sotto uno di quei balconi dai tendaggi tutti variopinti, un delizioso profumino di spezie solleticò il naso di una, e il muso dell’altra. Era senz’altro curcuma, con cardamomo, cumino e l’inconfondibile fieno greco. In una parola: cous cous!
Qualche donna araba si trovava certo in cucina, all’interno di quella casa, e aveva messo sul fuoco una bella tajine (una pentola di coccio marocchina). Tajine… che conteneva un pranzetto a base di cous cous, condito con chissà quale verdura croccante. Le spezie che avevano sentito erano quelle tipiche del condimento che lo rendeva così speciale: non c’erano dubbi!
La giraffa, capendo che l’amica artista era affamata quanto lei, pensò bene di allungare il collo fino alla finestra del balcone, cercando di ottenere qualcosa di buono…
Evidentemente, era una giraffa conosciuta in città, e che stava anche simpatica alla padrona di casa. Pochi minuti, e risbucò dalla casa con una ciotola abbondante piena di cous cous ancora tiepido. Un cous cous buonissimo, che la Risolartista gustò con piacere, seduta in groppa alla sua giraffa. Un cous cous che volle ricambiare, facendo un disegno della moschea per la gentile signora araba che le aveva offerto quel piattino delizioso.
Era ormai tardi: tempo di tornare nelle sale della Pinacoteca, e di salutare la sua amica giraffa. Tuttavia, le promise che sarebbe tornata presto a visitare il telero dei fratelli Bellini. Non vedeva l’ora di assaggiare il prossimo cous cous che avrebbero trovato in chissà quale altra casa arabeggiante. Si sa che, i piatti tipici, mangiati “in loco”, hanno un gusto tutto particolare…
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