L’impressione che si ha del lavoro di uno storico dell’arte, come era Federico Zeri, è quella di un cercatore di tesori. Di più, è quella di uno Sherlock Holmes dell’arte, che ha un sesto senso sopra l’ordinario, e un occhio più acuto di una lince. Ricostruire la storia dei dipinti è un’impresa ardua, quanto affasciante: si tratta di raccogliere indizi, confrontare prove, voci e testimonianze. A sentire così, sembra proprio di avere a che fare con delitti e misteri. In effetti, non siamo poi così lontani: se l’investigatore inglese aveva a che fare con morti e scomparse di persone, qui, analogamente, abbiamo morti e scomparse… di quadri! Volendo nobilitare ancor più la figura dello storico dell’arte, possiamo dire che il suo compito ha un ostacolo ulteriore: non ci sono “vivi” da interrogare, ma solo documenti dispersi chissà dove, e tele dipinte che compaiono di tanto in tanto in qualche soffitta ammuffita e dimenticata. Dunque, il nostro Federico Zeri era uno Sherlock Holmes al quadrato…
Dopo questo breve elogio agli studiosi di arte, vi sarà venuta voglia di sapere qualcosa di più sul suddetto personaggio in questione. Chi era costui?
Federico Zeri è stato un grandissimo storico dell’arte del ‘900. Il secolo scorso lo ha visto protagonista di innumerevoli ritrovamenti e attribuzioni di opere, che spaziano dal gotico, alla ritrattistica di corte, fino alle correnti del Cinquecento. Il suo contributo più grande (e, a mio avviso, più affascinante) è stato quello di essere il primo a raccontare al mondo qualcosa di più sul misterioso artista Johannes Hispanicus. Tenete le domande pronte su quest’ultimo, perché ne saprete di più a breve.
Cogliendo l’occasione offerta dal Museo Poldi Pezzoli, che ha raccolto in una piccola mostra alcune opere frutto delle ricerche dello Zeri, possiamo apprezzare anche noi il suo contributo alla storia dell’arte. Malgrado esse siano una selezione ristretta di quelle che devono essere state oggetto dei suoi studi e delle sue identificazioni, bastano a farci dire un “grazie” spontaneo nei suoi confronti. Pensate che, senza il signor Federico Zeri, oggi quei dipinti non sarebbero appesi alle pareti di un museo, non avrebbero un autore, né una collocazione, e neppure una storia. Per fortuna, c’è chi, come lui, si impegna quotidianamente per ricostruire l’arte del passato, così da permettere anche a noi poveri contemporanei di goderne e di imparare qualcosa di nuovo.
Con questi buoni pensieri nella mente, è ora di fare un giretto alla mostra, e soffermarsi su qualche curioso ritrovato del nostro grande storico.
Cominciamo dall’opera con cui apre la mostra: il “Trittico ad ante mobili” di un pittoresco artista umbro (esattamente di Foligno), ossia Giovanni di Corraduccio.
Sono le parole dello Zeri a introdurci nel dipinto: “”Curiosissima è la distribuzione delle storie nella tavola centrale. […] Imperizia grossolana del pittore? O piuttosto, riflesso di un rielaborato, a sfondo misticheggiante, del testo evangelico […]?”
Ecco. Persino lui ce ne parla in modo affascinante, invitandoci a fantasticare sul motivo per cui l’autore abbia voluto disporre le scenette in modo così strano. In effetti, se guardate bene il trittico, vedrete come non ci sia logica nella sequenza di quelle scene che dovrebbero cominciare dall’Ultima Cena (in basso a sinistra), per poi finire con la Resurrezione e l’Apparizione fuori dal sepolcro (accanto a destra). Il racconto si aggroviglia inspiegabilmente, conferendo un carattere misterioso, che ben richiama la terra di provenienza del dipinto.
Giovanni di Corraduccio era umbro. “Umbro”, soprattutto nel Quattrocento, era sinonimo di personaggi appartenenti a una cerchia curiosa, in cui le storie evangeliche circolavano in modo altrettanto curioso. “Umbro” dà l’idea di “ombra” nella sua stessa radice; inevitabile una nota oscura nell’interpretazione dei prodotti artistici dell’entroterra dell’Italia Centrale.
Malgrado tutta questa oscurità, Federico Zeri riuscì a scoprire questo piccolo tesoro di Trittico che ci è regalato oggi alla vista. Vi consiglio di perdervi nelle storie evangeliche, soffermandovi sui dettagli degli abiti, delle aureole indorate, e di quelle folle di personaggi, che hanno un effetto tanto estetico, quanto didascalico. Didascalico, perché, pur nella confusione sequenziale degli episodi, istruiscono perfettamente sulle storie che vogliono raccontare. Anzi, con quel mistero di logica, regalano un gusto ancor più particolare.
La seconda tappa coinvolge due ritratti: uno del Moroni, che raffigura Fra Michele da Brescia, e uno di Ercole de’ Roberti, di ignoto soggetto. È interessante vedere la differenza di stile, e l’emozione che ciascun autore ci trasmette. Da una parte c’è grande naturalezza ed espressività: il Moroni, da buon ritrattista lombardo pre-caravaggesco, ci riporta di fronte al fraticello del passato. Dall’altra, invece, il pittore ferrarese è molto più rigido, e rimane su uno stile rinascimentale naturale, ma inespressivo. Quest’ultimo è il tipico ritratto di profilo, che più e più volte ricorre nelle collezioni in giro per l’Italia: belle opere, ma che poco ci trasmettono in quanto a umanità.
Passiamo a un tripudio di realismo e volti emotivi: la Madonna con il Bambino e i Santi di Antonio Previtali.
Anche questo nome, molto probabilmente, giungerà ignoto a molte orecchie. Vi basti sapere che era un pittore cinquecentesco, qui molto ispirato dal lombardo Lorenzo Lotto. In effetti, ritroviamo proprio le espressioni umane e dolci del Lotto in ognuno dei soggetti: la Vergine illuminata al centro; il San Sebastiano trafitto, con un volto che pare quello di un putto dai capelli ricciuti; il Sant’Antonio Abate con il campanello; il San Rocco; e persino il “donatore”. Quest’ultimo, immortalato in preghiera a destra, potrebbe essere un probabile committente (di solito si facevano sempre raffigurare nei quadri); anche lui si rivolge con espressività “lottesca” verso il Bambinello.
Vi risparmio la serie di nature morte che hanno più del “tentativo mal riuscito di fare una natura morta”, che altro. Siamo abituati a pensare al prototipo di natura morta quale la “Canestra” del Caravaggio: l’emblema del realismo e della naturalezza degli oggetti inanimati. Se la utilizzassimo come metro di paragone (visto che le opere in mostra dovrebbero esserne ispirate), nessuno dei dipinti reggerebbe il confronto! Basta dare uno sguardo ai colori e ai soggetti: tutte tinte fredde e artificiali, che modellano frutta e fiori troppo perfetti e “standard” per essere veri. E non c’è neppure quel gusto per i minimi dettagli fiamminghi che emoziona tanto…
Come diceva Dante “Non ti curar di loro, ma guarda e passa”.
E passiamo, dunque, all’ultimo gruppo di opere su cui vale la pena fermarsi. Le tele del misteriosissimo Johannes Hispanicus. È questo il cuore della mostra, in quanto è grazie a Federico Zeri, se oggi è possibile vedere e sapere qualcosa sul suddetto artista. Poco si conosce ancora della sua vita, ma possiamo dire che fosse di origine spagnola, ma che formatosi in Italia, prima a Firenze e Roma, poi a Venezia, Milano, Ferrara e nelle Marche.
Guardando alle opere esposte, una serie su Efigenia e Cimone, e una sul tema della Deposizione, possiamo apprezzare innumerevoli influssi che il nostro Johannes colse in terra italica. Il Perugino fu il suo primo maestro: lo ritroviamo nei paesaggi e nei volti. Poi, quando si trasferì a Venezia, entrò certo in contatto con Giovanni Bellini, che si può cogliere ancora in quegli sfondi campestri molto naturali, con macchie di fronde dai tronchi lunghi e sottili, e foglioline indorate. Infine, oserei dire che c’è una punta “fiamminga” in certi dettagli; la conoscenza di Albrecht Dürer (che proveniva dal Nord) servì certo a caratterizzare le pennellate dell’artista con simili minuzie.
Ed è perdendosi in quelle collinette che stanno alle spalle dei protagonisti, che possiamo apprezzare fino in fondo il contributo di Federico Zeri. Facendo scorrere lo sguardo nei passaggi di colore della prospettiva aerea, che fa sfumare tutto all’orizzonte, viene spontaneo un ringraziamento. Un ringraziamento al lavoro di questo storico dell’arte, come agli altri suoi colleghi, che hanno contribuito ad aprirci mondi di colori e di storie sepolte, investigando come Sherlock Holmes tra soffitte e archivi persi nel passato.
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