L’ARTISTA
Vincenzo Foppa nacque a Brescia, intorno al 1430. Poche sono le notizie della sua formazione; il Vasari ci dice che si recò a Padova, dove ebbe l’occasione di imparare dall’arte di Mantegna e di Donatello, che operavano lì in quel periodo.
Se il critico Roberto Longhi lo definiva il “padre del Rinascimento lombardo”, un motivo ci doveva essere: la sua pittura fu senza dubbio riformista per il tempo. Prospettiva, realismo e dettaglio nella narrazione, erano i suoi caratteri principali, che si rivedono nella Cappella Portinari (nella Basilica di Sant’Eustorgio), da lui stesso affrescata nel 1468.
Oltre a questa importante commissione, il Foppa fu attivo anche in Liguria, a Savona, realizzando una grande pala per la Cattedrale del Priamàr, in collaborazione con Donato de’ Bardi (vedi dopo).
Il periodo di fama crescente di quegli anni, però, fu poi seguito da una crisi, che portò quasi alla scomparsa dell’artista. L’arrivo di Leonardo a Milano, offuscò decisamente la sua figura: il Foppa tentò di imitarlo, ma con scarsissimo successo. Tuttavia, la sua arte, passata in secondo piano per qualche tempo, ritornerà poi in auge nelle opere di altri successori; il Moretto ne è un esempio.
LA SUA PITTURA
L’analisi dei caratteri dell’arte foppesca comincia dalla sua formazione giovanile. La prima opera a cui fare attenzione è “I Tre Crocifissi”, realizzata nel 1450.
Qui si nota l’influenza lombardeggiante, nell’uso particolare della luce, e nel paesaggio naturale che si avverte sullo sfondo. Tuttavia, compaiono anche influssi toscani, provenienti dal Mantegna e dal Donatello, che certamente lo ispirarono durante il suo soggiorno a Padova. Da questi, infatti, apprese la prospettiva e l’evidenza plastica dei corpi. Tuttavia, volendo dire qualcosa di più sulla suddetta prospettiva, si nota che la volle “interpretare” in modo personale: la prospettiva rigorosa e geometrica venne un po’ modificata, ingigantendo la figura di Cristo rispetto a quelle dei due ladroni. L’intento simbolico ne era senz’altro il motivo.
Tornando alla formazione del Foppa, questa avvenne in un contesto gotico, caratterizzato da toni fiabeschi, cortesi, profusione di ori, colori e dettagli preziosi.
Punti di riferimento per l’artista furono Jacopo Bellini, e Gentile da Fabriano; malgrado ciò, i caratteri del gotico non lo ammaliarono troppo. La sua poetica era già definita, ed era indirizzata verso un’altra strada, più naturalistica e con un chiaro “senso delle cose”, che mancava ai predecessori. Dimostrazione di questa nuova tendenza fu la propensione a rivolgersi verso Padova, verso la plasticità della figura umana di Donatello, e verso la prospettiva e lo scorcio di Mantegna.
Prendendo spunto da questi, il Foppa cominciò a dare più “peso fisico” alle sue figure, e ad applicare una prospettiva più scientifica.
C’è da dire che, però, il nostro artista non aderì mai completamente all’una o all’altra corrente: la sua personale visione della realtà lo portò sempre a mantenersi un po’ nel mezzo, senza scivolare in estremismi. Non divenne un devoto adepto della Bottega dello Squarcione di Padova, ma si ritrovò ad avere una posizione “riformista” nell’arte del tempo.
Dunque, il Foppa fu un “riformista”, e non un rivoluzionario completo. L’utilizzo dell’oro (tipico carattere gotico), ad esempio, rimase ancora preponderante nelle sue opere.
Passando al suo periodo ligure, lì conobbe Donato de’ Bardi, che divenne il suo maestro d’elezione.
Donato de’ Bardi… chi era costui?
Ebbene, malgrado pochi lo conoscano, pare sia stato un “ponte” fondamentale con il mondo della pittura fiamminga, che influenzò lo stesso Foppa per l’attenzione al particolare.
Con la crisi dell’artista, dovuta all’arrivo di Leonardo, la sua pittura venne quasi dimenticata. Dimenticata… per poi riemergere in autori successivi, come il Moretto, ad esempio. Ciò che venne ripreso è il suo particolarissimo uso del grigio.
Il grigio, nel Foppa, divenne un medium proporzionale adatto a dare vita e importanza a cose di per sé molto umili. Si tratta di un colore neutro, ma non neutrale: è capace di dare risalto ai soggetti, avvolgendoli nella tonalità della perla.
LE OPERE
PRESENTAZIONE DI GESÙ AL TEMPIO (BRERA)
La tradizione vuole che quest’opera provenisse dalla terra ligure. Infatti, il Foppa passò un lungo periodo sulla Riviera mediterranea, mentre era in compagnia dell’amico e collega pittore Donato de’ Bardi. Per chi se lo fosse dimenticato, quest’ultimo fece da “ponte” tra il nostro artista lombardo e il mondo fiammingo.
Ed è proprio fiammingo lo stile del dipinto in questione; minuziosissimi sono i dettagli, come la cupola punteggiata di stelle d’oro, o il lanternino che illumina l’abside in penombra. Ancor più nordico è l’utilizzo della luce, che riprende le opere dei maestri delle Fiandre, celebri per quegli effetti luministici molto particolari. Splendida, poi, è la l’architettura che fa da cornice alla scena: un pavimento a scacchi essenziale e in perfetta prospettiva, una serie di archi policromi attorno a un altare finemente lavorato. Siamo nel mezzo di un presbiterio immerso in una luce chiara, quasi liquida, che potrebbe ben anticipare le future atmosfere immobili di Piero della Francesca. Non si sa bene quale sia l’origine, ma c’è un chiarore divino che pervade ogni angolo, scivolando sui volti e sulle superfici, e trasmettendoci una grande delicatezza di sguardi e movimenti.
LA MADONNA DEL TAPPETO (BRERA)
C’è chi nemmeno lo sa, ma un tempo, a Brera, non c’era una Pinacoteca, bensì una chiesa. La chiesa di Santa Maria di Brera. Era una chiesetta dell’ordine degli Umiliati, presto “ridotta” per farvi un edificio da adibire a scuola dei Gesuiti. La storia è lunga (e questo non è il momento giusto per raccontarla); vi basti sapere che, a inizio ‘800, nacque il primo nucleo di quadri del museo. Anno dopo anno, si cominciò ad arricchire e infarcire la collezione con opere conquistate (o sottratte) da molti edifici sacri spogliati. In breve, lo spazio divenne insufficiente: occorreva ingrandire le sale della Pinacoteca…
Se prima non sapevate neppure dell’antica esistenza di Santa Maria di Brera, almeno ora conoscete il motivo della sua scomparsa. L’arte ha avuto la meglio, e la vecchia chiesetta ha ceduto il passo agli interessi umanistici. Per fortuna, parte della sua bellezza artistica è ancora visibile a noi contemporanei; un esempio è questo affresco.
La Madonna del Tappeto fu staccata dalle pareti della chiesa nel 1884, per poi fare il suo ingresso come opera parte della collezione del museo. In effetti, si merita tutta l’ammirazione dei visitatori: è una scena insolita, molto fine, e dalla grande precisione stilistica.
Abbiamo la Madonna con il Bambinello che si affacciano da una balconata marmorea; tuttavia, ciò che cattura subito l’attenzione è quel bel tappeto orientaleggiante. Ne avete mai visti di simili in affreschi di epoca precedente?! Molto difficile… non è roba che si veda tutti i giorni. Già il fatto che il Foppa avesse gusti raffinati in materia di tappeti persiani dovrebbe stupirci. In più, c’è quella prospettiva scorciata tanto perfetta, con arco a tutto sesto e volta a botte impreziosita dai lacunari. C’è l’Oriente, ma c’è anche un gusto classico assai erudito, ripreso probabilmente dal Bramante (grande appassionato di archeologia). Il che rende questo affresco un piccolo capolavoro di cultura, capace di unire sacro, Classicità ed esotismo… sotto il segno della terra braidense per cui era nato.
I TRE CROCIFISSI
La storia di quest’opera è misteriosa; vista la piccola dimensione, però, è abbastanza probabile che fosse destinata alla devozione privata.
Se da una parte vediamo la prospettiva tipica toscana, raccolta dal Foppa probabilmente a Padova, dalla lezione di Mantegna e Donatello, l’animo del dipinto è tutto lombardo. Il Longhi ci descrive l’utilizzo della luce nel modo tipico del Nord Italia, ripreso a sua volta dai Fiamminghi. Basta soffermarsi una attimo su quei corpi plastici modellati in primo piano in cima alle croci, per apprezzare a pieno i grandiosi effetti luministici.
Parlando ancora di prospettiva, dobbiamo dire che il Foppa la interpretò in modo curioso, prendendosi una certa libertà interpretativa. Il fatto di rappresentare i personaggi principali “ingranditi”, ad esempio, è una deroga al rigore prospettico, che si ricollega alla moda gotica di fare più grossi i soggetti più importanti.
Nel gettare un ultimo sguardo all’opera, vale la pena di concentrarsi su quello sfondo illuminato da un chiarore lontano. C’è un sentiero che conduce al villaggio in lontananza; un sentiero fiabesco, che potrebbe ben condurre a un paese incantato. Merito delle suggestioni gotiche e quasi “magiche” di Gentile da Fabriano e di Bellini che al nostro Foppa dovevano essere assai piaciute…
Lascia un commento