Entrare nella lussuosa sala delle Gallerie d’Italia milanesi, trasformate in museo di marmi per l’occasione, è come diventare un giovane pittore nel fiore della sua formazione. Viene voglia di prendere in mano un quaderno di schizzi, una matita sanguigna o un carboncino, e cominciare a tracciare sulla carta vaghi accenni di volti e corpi umani…
Questa è la sensazione che si prova fin da quando ci si avvicina ai primi tre busti in esposizione. Più si ammirano i dolci lineamenti della “Fanciulla Torlonia”, più si seguono le rughe dell’ “Eutidemo”, e più l’atmosfera di quello che doveva essere l’originale Museo Torlonia avvolge il visitatore. Passare accanto a queste statue di marmo è un po’ come passeggiare in un sogno; in un sogno ambientato in pieno Ottocento, quando Alessandro si diede da fare ad accrescere la sua già ricca collezione.
La mostra che, partita da Roma, intende far viaggiare una piccola selezione di capolavori appartenenti alla collezione di marmi Torlonia, è un’occasione unica nel suo genere. Qualche secolo fa, studiosi e artisti avrebbero pagato fior di quattrini, per avere la possibilità di intrufolarsi a dare un’occhiata a queste opere. Ma non era permesso: lo scopo di fruizione non rientrava nel business di famiglia. Ci volle un po’, prima che i proprietari si convincessero ad aprire la loro collezione privata alla vista del pubblico. Per anni, i loro tesori rimasero nell’ombra, oggetto solo di transazioni commerciali; aumentarono di numero e valore, ma non di popolarità. Finché, poi, nel periodo dell’Unità, Alessandro Torlonia maturò l’idea di aprire un vero museo, che sorse a Roma, in via della Lungara. Ed è lì che dobbiamo ambientare il nostro tour da apprendisti pittori.
Considerando che siamo davanti alla più grande collezione privata di marmi esistente al mondo, si fa fatica a credere che una singola famiglia sia riuscita a raccogliere tutto ciò. Eppure, una serie di fortuiti eventi che toccarono i Torlonia rese possibile questo miracolo.
La storia comincia con Giovanni Raimondo, figlio di un commerciante di stoffe francese, che si era trasferito a Roma a metà Settecento. Ereditata l’attività, pensò bene di trasformarla da negozio di broccati a Banco di prestito… una pensata degna di elogio. La fortuna economica della famiglia accelerò presto, portando il suddetto Giovanni a divenire addirittura banchiere del Papato e di Napoleone. Si immagina facilmente che, al successo finanziario, possano essersi poi accompagnati i giusti investimenti, che non fecero che accrescere il patrimonio di famiglia.
Il denaro, da solo, non era abbastanza: se i Torlonia volevano nobilitare la loro reputazione, avevano anche bisogno di elevarsi culturalmente. E, così, gli acquisti di famiglia si direzionarono verso possedimenti fondiari, antiche ville, e collezioni in mano a nobili facoltosi ormai in decadenza. Approfittando di un periodo di difficoltà per molti che, tempo prima, si erano trovati ai vertici della società, Giovanni costruì il suo tesoro economico e, sempre più, artistico. All’inizio, però, le opere erano acquistate solo con intenti di profitto, per rivenderle sul mercato a prezzi superiori. A poco a poco le prospettive mutarono…
Il figlio di Giovanni, il già citato Alessandro, presi in mano i lasciti paterni, pensò di farne un prestigioso museo, che accrescesse ancor più lo splendore della famiglia. E così, i pezzi si accumularono sempre più, arrivando anche a comprendere parte dei pregevoli marmi posseduti secoli prima da Vincenzo Giustiniani, noto collezionista romano amico di Caravaggio.
Ma veniamo alla mostra. Alla nostra piccola e ridotta mostra, che ospita una selezione di quella che è definita la “Collezione di Collezioni”. Ci si deve immaginare l’originaria esposizione in via della Lungara come un vero museo contemporaneo ante-litteram. Il fascino della Classicità greca e latina, infatti, aveva già toccato all’epoca i proprietari. Colpa (o merito) del Winckelmann: lo storico dell’arte tedesco che aveva riscoperto l’antico, individuando in esso il canone di bellezza ideale. Poter possedere i lasciti dei grandi scultori classici era quanto di più desiderabile per avere un posto di riguardo nella società dell’epoca.
Che i Torlonia fossero interessati al collezionismo da un punto di vista non solo di “possesso”, ma anche di studio e conoscenza, lo si nota ripercorrendo l’allestimento del museo iniziale. I pezzi non erano disposti casualmente, ma secondo un preciso criterio scientifico, che li raccoglieva per temi e soggetti. Questa attenzione fu presto apprezzata dagli artisti dell’epoca, che cominciarono a frequentare il museo, blocco di schizzi alla mano, per copiare e imparare sui colpi scolpiti dagli Antichi.
Un altro punto su cui è doveroso dire qualcosa è il restauro. Se si fa scivolare lo sguardo sulle statue in mostra (senza neanche troppo impegno), si noteranno alcune parti un po’ troppo giovani, per non dire estemporanee. La mano dei restauratori è stata, nei secoli, costantemente attiva; anche se con alcune differenze. Tre sono le tendenze di restauro che hanno caratterizzato la collezione Torlonia, dal Seicento a oggi. Inizialmente (ai tempi del Giustiniani, per intenderci), la moda era quella del restauro integrativo, che tentava di ricostruire la scultura originaria, anche a costo di aggiungere pezzi di ben altra origine. Volete un esempio? Guardate al “Caprone” accoccolato a fine percorso, e riconoscerete un corpo classico, completato da una bella testolina ricciuta che la tradizione vuole sia opera del Bernini (noto scultore seicentesco).
La seconda tendenza, caratterizzante il Settecento (e dunque coeva a Winckelmann), era molto scientifica nel suo impegno a migliorare la leggibilità dell’opera, senza andare a stravolgere i resti antichi. Opera del restauratore Cavaceppi dovrebbe essere la risistemazione della “Testa di Tolomeo”, che si ritrova anch’essa esposta.
Infine, l’ultimo capitolo novecentesco cercava di intervenire ancor meno sul soggetto, privilegiando ancora l’intento scientifico, accanto al voler rendere la scultura in armonia con il contesto di destinazione.
E quella del restauro, appena delineata, non è altro che una delle mille prospettive da cui si può ammirare questa mostra. Ogni sguardo regala allo spettatore un’emozione diversa. Una volta si ripensa al momento in cui i volti e le muscolature in tensione scaturirono dal marmo intonso. Un’altra si cerca di richiamare alla memoria i lasciti liceali sulla storia dei soggetti. E, poi, ci si immagina di essere in quel museo in via della Lungara, come uno di quegli artisti con il blocco da disegno sotto il braccio, indecisi su quale busto cominciare a ritrarre.
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