Il nome di Antonio Canova richiama subito alla mente un universo di Classicità greca scolpito nel marmo bianco, con una delicatezza ineffabile. Lo scultore, principale esponente del Neoclassicismo italiano in scultura, è noto per i suoi capolavori ottocenteschi che fanno rivivere ancora oggi lo spirito dell’arte della Grecia Antica.
Se, però, si hanno in mente almeno un paio delle sue statue marmoree (pensate alle “Tre Grazie”, o ad “Amore e Psiche”), più sottile e silenzioso è il suo legame con Perugia. Con l’Accademia delle Belle Arti di Perugia, per la precisione. Cogliendo lo spunto offerto dalla mostra allestita proprio presso il Museo dell’Accademia perugino, vediamo di fare luce su questo rapporto che, curiosamente, non è all’insegna del marmo, bensì del gesso.
Per poter apprezzare le opere perugine di Canova (come per qualsiasi altro suo lavoro), bisogna sapere almeno qualcosa sulla sua filosofia di scultore. Altrimenti, ciò che si vede non è molto di più che una bella statua bianca, che ricorda spiccatamente la Grecia.
Antonio Canova, figlio di uno scalpellino veneto, visse in quel passaggio di secoli rivoluzionario quale fu il ponte tra ‘700 e ‘800 , caratterizzato dal diffondersi in Europa del Neoclassicismo, in reazione agli eccessi e agli artifici del Barocco e del Rococò.
Questo nuovo movimento artistico, ispirato dagli ideali dell’Illuminismo, aveva posto le sue basi nelle scoperte archeologiche di metà Settecento, che avevano riportato alla luce Pompei ed Ercolano. Bastò riprendere in mano le sculture e le pitture compendiarie sepolte sotto le ceneri del Vesuvio, per raccendere nell’animo degli intellettuali il gusto della Classicità greca e latina, con il fine di riportarla nella loro attualità.
Motore del pensiero neoclassico fu l’archeologo e storico tedesco Winckelmann, il cui merito è quello di aver definito il nuovo concetto di “bello ideale”, espresso nella sua celebre “nobile semplicità e quieta grandezza”. Egli si rifaceva all’arte delle antiche Roma e Grecia, viste come modello di perfezione assoluta, che dovevano essere imitate, e non copiate. La sottile differenza stava nel partire dall’immagine classica, imparare da essa, e creare qualcosa di nuovo, che avesse anche un’utilità per la società contemporanea. Altro aspetto importante del Neoclassicismo era proprio il valore morale delle opere, che dovevano servire a migliorare il mondo di allora, tendendo alla perfezione greca. Ultima chiave, non meno importante, era la grazia propria delle forme da imprimere sul marmo o sulla tela; una grazia piacevole alla ragione, vista in un’ottica razionale e intellettuale, che ben si legava alla supremazia della ragione illuministica.
Tra tutti gli scultori che aderirono alla filosofia di Winckelmann, Canova fu quello capace di interpretarla alla perfezione, tanto da essere soprannominato il nuovo “Fidia”, in ricordo del celebre architetto (Fidia appunto) del Partenone. Ogni volta che si ammira una sua opera, è come se essa fosse in grado di riportarci all’ideale della Grecia Antica, e alla loro realtà idilliaca e ineccepibile.
Il talento di Canova non mancò di esprimersi e di lasciare testimonianze in giro per tutta Europa: committenti da ogni dove desideravano avere una delle sculture marmoree. Accanto alla sua attività “commerciale”, però, egli curò anche l’istruzione dei giovani studenti, che frequentavano le accademie per instradarsi sulle sue orme. Tra le varie accademie legate al suo nome, figura proprio quella di Perugia. Nel 1812, Canova ne fu nominato accademico di merito, assumendo un ruolo preminente nella gestione della stessa. Fu l’inizio di un rapporto che porta i suoi segni tangibili ancora oggi, specialmente all’interno della gipsoteca.
Qualcuno potrebbe porsi tra sé l’interrogativo: che cos’è una gipsoteca…? Ebbene, la gipsoteca è un luogo che, come la “pinacoteca”, aveva la principale funzione di ausilio all’accademia delle belle arti, come occasione di studio e copia di capolavori. Gli studenti si recavano nelle pinacoteche a copiare e analizzare i dipinti, mentre stazionavano di fronte alle sculture delle gipsoteche per fare lo stesso con le sculture. Insomma, al posto dei quadri, in una gipsoteca trovate le statue. E, in particolare, vi trovate le statue di gesso.
Già che parliamo di gesso, è interessante capire che ruolo importante avevano i manufatti di gesso, all’interno del procedimento creativo di Canova. Oltre che essere utile ex-post, ossia per creare una riproduzione di un’opera già scolpita e finita, il gesso era fondamentale ex-ante.
Ogni sua scultura cominciava con il disegno: ci sono fior fiore di schizzi e bozzetti autografi che testimoniano tutti gli studi bidimensionali che facevano da genesi ai suoi capolavori. Poi, seguiva un prototipo di creta, per trasporre l’idea in tre dimensioni, e dunque il modello di gesso. Quest’ultimo era riempito di piccoli chiodi, che servivano come segni per riportare le dimensioni corrette sul blocco di marmo finale, mediante l’utilizzo del pantografo. E non dovete pensare che tutto questo lavoro meticoloso fosse fatto dal Canova stesso… era sufficientemente famoso da potersi permettere un’intera bottega di allievi al suo servizio, che si occupavano dell’intera scultura di marmo, fermandosi sul più bello: la superficie finale. Questa spettava, ovviamente, al maestro, che rifiniva l’opera con quel tocco di grazia che solo lui era capace di rendere.
Ma torniamo alla nostra gipsoteca perugina. Questa, a inizio Ottocento, cominciò a essere arricchita e allargata sempre più, per fare spazio a un maggior numero di sculture di gesso che potessero utili agli studenti. Canova, da neo-nominato accademico, contribuì in prima persona a tali migliorie, convintissimo dell’importanza di offrire ai giovani modelli greci su cui “sudare giorno e notte”. In perfetta linea con lo spirito neoclassico, le opere antiche erano necessarie per poter essere imitate e utilizzate per creazioni nuove e attuali. Averne numerose e di qualità a disposizione era imprescindibile per la formazione dei futuri scultori.
Accanto a capolavori degli antichi artisti greci e romani, però, non potevano mancare le riproduzioni in gesso di sculture ben più contemporanee… quelle canoviane prima di tutto. Ancora in vita, il Canova stesso si espresse a favore della donazione della copia delle sue celebri “Tre Grazie”, che giunsero nella gipsoteca due anni dopo.
Con la morte dell’artista, avvenuta nel 1822, i suoi eredi si dimostrarono disponibili a donare ulteriori gessi realizzati dallo stesso Canova, contribuendo all’arricchimento della collezione. Tra questi si ricordano i due bassorilievi con la “Morte di Priamo” e la “Danza dei figli di Alcinoo”, la testa del cavallo e il “Damosseno”.
Ancora oggi, passeggiando in silenzio tra i piedistalli della gipsoteca perugina, ci si può sentire come uno di quegli apprendisti scultori che si accingevano a “sudare giorno e notte” sui modelli di gesso, aspirando a un’analoga perfezione.
Tra tutti i capolavori, le “Tre Grazie” conquistano il primato in termini di attenzione: sembra di avere davanti l’originale marmoreo. Anche la “Testa del cavallO”, però, con quella sua finezza di chioma, fa a gara in quanto a rappresentazione di “nobile semplicità e quieta grandezza”.
Ciò che richiede, invece, una curiosità più sottile sono i due bassorilievi, che riportano in vita due scene tratte dalla mitologia classica. Si tratta di una testimonianza tangibile (…l’unica, visto che di entrambi non fu mai realizzata l’opera definitiva in marmo) della passione di Canova, condivisa con il Neoclassicismo in generale, per le tematiche mitologiche. Si racconta, addirittura, che, mentre il maestro se ne stava a scolpire nel suo studio, si facesse leggere di sottofondo i grandi Poemi epici. Le parole omeriche dovevano avere un potere di ispirazione ineguagliabile!
E così, contemplando quei due figli di Alcinoo che volteggiano nell’aria a ritmo di una musica che sembra ferma all’epoca classica, si può comprendere il legame eterno tra Canova e l’Accademia di Perugia. Un legame così eterno, che unisce l’Antica Grecia al nostro presente di visitatori.
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