L’ARTISTA
Ebbene sì: siamo davanti a uno di quei rarissimi (e preziosissimi) esemplari di artiste donne, che hanno fatto la storia della pittura. Il caso di Sofonisba ha ancor più valore delle sue colleghe “recenti”, in quanto, ai suoi tempi, l’idea di una donna maestra di bottega era assolutamente impensabile. La massima aspirazione di una pittrice poteva esse quella di essere apprezzata, di ricevere ottime commissioni, ma senza che queste venissero retribuite in denaro. Le opere di mano femminile erano “regalate”, o scambiate con altri beni, ma non certo acquistate. Malgrado le vedute limitate della società cinquecentesca, Sofonisba Anguissola riuscì comunque a distinguersi al pari dei colleghi uomini a lei contemporanei, scrivendo una pagina fondamentale dell’arte italiana e della storia delle grandi donne del nostro Paese…
Cominciamo con un po’ di biografia. Sofonisba nacque a Cremona, nel 1532, da una famiglia benestante, di ottima cultura. Il padre, il signor Amilcare Anguissola, da uomo molto colto che era, si impegnò fin da subito per curare l’istruzione e la formazione delle sue sei figliole (e dell’unico fratellino). Egli concesse loro di studiare letteratura, musica e pittura, così come gli umanisti illuminati dell’epoca (come il celebre Baldassarre Castiglione) prescrivevano all’epoca. Tuttavia, per la sua primogenita Sofonisba, fece qualcosa di più: visto il suo grande talento pittorico, non le impedì di approfondire la sua tecnica, consentendole di seguire i maestri allora in circolazione come Bernardino Campi, e Bernardino Gatti, noto come il Sojaro, e persino Michelangelo.
Fu proprio Michelangelo, a quanto si dice, a introdurre la fanciulla all’arte. C’è un suo scritto, indirizzato a papà Anguissola, in cui egli espresse il suo stupore per la bravura di Sofonisba nel ritrarre i “moti dell’animo” di una bambina, che se la ride accanto a una vecchia serva mentre questa tenta di imparare l’alfabeto. Intuendo il suo talento, egli le suggerì di provare a immortalare anche l’espressione di “dolore e pianto”, come a lanciarle una sfida. Sullo spunto del grande artista, la ragazzina realizzò un ben noto disegno (pare che addirittura il Caravaggio l’abbia ripreso per il suo “Ragazzo morso da un ramarro”) raffigurante il fratellino urlante… morso da un granchio!
Inizialmente, il suo genere prediletto era quello del ritratto; un ritratto molto fiammingo, realistico, che esprimeva tutta l’intensità dell’animo dei soggetti. Presto, però, le sue occupazioni subirono un consistente cambiamento…
Le doti precoci di Sofonisba la condussero lontano. Grazie all’attività “promozionale” fatta dal padre, le sue committenze divennero sempre più importanti (anche se mai davvero pagate), fino a raggiungere l’invito di Filippo II a unirsi alla sua corte di Madrid.
In terra spagnola, la pittrice divenne dama di corte e maestra di disegno di Isabella di Valois, con cui costruì un legame affettivo profondo e amichevole. Un legame così intenso, che, alla morte della sovrana, poté rimanere al servizio dei suoi figli, ed ebbe persino da parte della famiglia reale un’ottima parola (e una cospicua dote) per il suo primo matrimonio. Fu così che, nel 1571, grazie all’intercessione della corona spagnola, si celebrarono le nozze tra Sofonisba e Fabrizio Moncada, fratello del viceré di Sicilia.
Purtroppo, però, quando mise il primo piede a Palermo, già vestiva gli abiti vedovili. Il giovane sposo era morto durante un naufragio, e lei si ritrovava sola in terra straniera, decisa a tornarsene a Cremona. Durante il viaggio, ebbe un fortuito incontro, con quello che divenne presto il suo secondo marito: Orazio Lomellini. Si trattava di un nobile capitano genovese, che la condusse con lui a Genova. Per oltre trent’anni, la sua vita si svolse lì, sulla costa del Mar Ligure, dove continuò la sua produzione ritrattistica, apprezzata dalle famiglie aristocratiche locali.
Nell’ultimo periodo, fece ritorno a Palermo, raggiungendo la veneranda età di ultranovantenne. Malgrado gli “svantaggi” dati dall’essere una donna pittrice, la sua fama varcò i confini dell’Italia, tanto in Spagna, quanto nell’area fiamminga. Se, da giovane, i suoi ritratti dettagliati si erano ispirati ai maestri nordici, possiamo dire che da anziana divenne lei stessa modello di un grande personaggio delle Fiandre. Parliamo di Antoon van Dyck, il quale la considerava l’artista da cui più aveva imparato. Rimase così affascinato dalla figura di quella grande donna, da immortalarla in un celebre dipinto che la raffigura, molto anziana, ma ancora vitale come era nei suoi primi autoritratti.
LA SUA PITTURA
La produzione artistica di Sofonisba si declinò soprattutto nel ritratto: il suo genere preferito.
Fin da piccola, cominciò ad acquisire confidenza con matite e pennelli imprimendo sulla carta le espressioni delle sue innumerevoli sorelle (e fratello). In effetti, essendo la primogenita di sette figli, aveva molto materiale da copiare e ricopiare.
Emblematica è la sua capacità di rappresentare le espressioni umane, in tutta la loro carica emotiva. Si tratta dei cosiddetti “moti dell’animo”, tanto cari a Leonardo, che ella ebbe modo di osservare e apprendere, essendo cresciuta in terra lombarda. C’è da ricordare che, poco prima della sua nascita, l’artista fiorentino aveva lasciato una traccia ben consistente del suo unico modo di dipingere; pensate al Cenacolo, ad esempio: un tripudio di moti dell’animo, declinati in dodici versioni diverse.
Sofonisba, però, ebbe anche due celebri maestri veri e propri… maestri in carne e ossa! Si tratta di Bernardino Campi, nella cui casa (era disdicevole per una donna andare “a bottega”!) lei e la sorella Lucia mossero i primi passi artistici; e dell’altro Bernardino… Bernardino Gatti, detto il Sojaro. È proprio grazie a quest’ultimo, che la giovane pittrice assimilò la lezione del Correggio (a cui il Sojaro si rifaceva), e sviluppò la sua passione per i ritratti dal naturale.
Ultimo particolare sono… i particolari. Come è facile intendere, l’influenza è tutta fiamminga. Influenza inevitabile, visto la popolarità che gli artisti del nord avevano a quei tempi in Lombardia (e non solo). I ritratti di Sofonisba sono affascinanti proprio per i dettagli che completano l’espressività delle figure, e per quella posa di tre quarti (conquista sempre fiamminga), che permette di raggiungere il culmine dell’introspezione dei loro protagonisti.
LE OPERE
AUTORITRATTO (BRERA)
C’è chi lo chiama “Ritratto di Minerva Anguissola”, sostenendo che la protagonista sia la sorella divenuta “suor Minerva”, e non l’autrice Sofonisba. Tuttavia, essendo questo dipinto alla Pinacoteca di Brera, e avendo lì come titolo “Autoritratto”, noi vogliamo fidarci dei curatori braidensi, e crederlo tale.
Indipendentemente dall’identità, è un piccolo capolavoro giovanile degno di nota. È una perla di naturalezza ed espressività, che cattura con quei due occhioni blu, così “parlanti” da invitare a scambiare qualche parola con la fanciulla.
In una tela di dimensioni assai minute, c’è già tutta la bravura ritrattistica di Sofonisba: l’incarnato morbidamente illuminato, i dettagli fiamminghi, lo sfondo ombroso da cui emerge il soggetto. E, poi, c’è tutta l’acconciatura elaborata, e il vestito, sobrio, ma raffinato, che si completa con un candido colletto deliziosamente annodato al centro. Proprio così: c’è persino un timido fiocchetto, che invita l’osservatore ad allungare la mano, e vedere se riuscirà a scioglierlo senza sforzo…
RITRATTO DI FAMIGLIA ANGUISSOLA
A giudicare dall’età del fratellino Asdrubale, che vedete sulla destra, il dipinto è databile 1558, quando questi aveva sette anni. Lo si ritrova in compagnia del padre, Amilcare, e della sorella Minerva… senza dimenticare il cagnolino bianco.
A dire del Vasari, che ammirò il ritratto qualche tempo dopo, mentre era in visita a casa Anguissola, i personaggi “sono tanto ben fatti, che pare che spirino e sieno vivissimi.” Capiamo facilmente il talento rappresentativo della pittrice, che sapeva rendere le espressioni in modo eccellente. Commuovere il Vasari (noto storico dell’arte), abituato a deliziarsi gli occhi con le tele fiorentine, non doveva essere semplice!
Guardando alla composizione, sembra un po’ a metà tra le tipiche immagini “dinastiche”, molto formali, e una scena di affetto e intimità familiare. Abbiamo la piccola Minerva, fanciulla molto colta, bravissima in letteratura, poesia e filosofia, che morì piuttosto giovane. Abbiamo invece il fratello Asdrubale, con tanto di spadino, in atteggiamento fiero: sa di essere l’erede di famiglia Anguissola.
I tre tronchi d’albero che sorgono alle spalle dei protagonisti fanno da “quinta scenica” al paesaggio fiammingo esteso sullo sfondo. Se osservate bene, noterete un che di “non finito” che campeggia nella parte inferiore: pare che Sofonisba l’avesse lasciato incompleto, interrotta nel suo lavoro dalla partenza per la corte spagnola.
PARTITA A SCACCHI
Fu Giorgio Vasari, grande biografo cinquecentesco, a rimanere impressionato per primo da questo dipinto. Così scrisse mentre si trovava ospite a casa Anguissola, dopo aver ammirato il capolavoro giovanile di Sofonisba: “Dico di aver veduto quest’anno in Cremona, in casa di suo padre e in un quadro fatto con molta diligenza, ritrarre tre sue sorelle, in atto di giocare a scacchi, e con esse loro una vecchia donna di casa, con tanta diligenza e prontezza, che paiono vive, e che non manchi loro altro che la parola”.
Fidiamoci del Vasari (che la sapeva lunga sulla storia dell’arte!), apprezzando anche noi la grande qualità di quest’opera di mano femminile. Fin dal primo sguardo, colpiscono le tre fanciulle in primo piano, rappresentate con una finezza di dettagli incredibile. La moda del tempo dell’alta società cremonese del Cinquecento è qui immortalata: tutto un tripudio di stoffe damascate, bordature indorate e gioielli principeschi. Per non parlare, poi, delle acconciature più che elaborate: trecce imperlate, che contornano i giovani visini delle figlie di Amilcare Anguissola.
… Chi abbiamo di fronte? Quella di sinistra è Lucia, la terzogenita della famiglia, che sta sfidando Minerva in un’intensa partita di scacchi. A osservare la disputa, invece, c’è la piccola Europa, di cui percepiamo il risolino eccitato: un esempio di “moto dell’animo” tutto leonardesco, che tanto piacque al Caravaggio. Infine, sulla destra, compare persino una serva, che sorveglia le sorelle intente a giocare in giardino.
Giust’appunto: ci troviamo in giardino. Un giardino fiabesco, realizzato in stile fiammingo, con una quercia che si distingue al centro, facendo da simbolo di solidità dei rapporti familiari.
Un’ultima annotazione va fatta sugli scacchi. Malgrado possa sembrare una scelta casuale, in realtà non è così. Il gioco degli scacchi ha un senso ben preciso, nel suo essere una delle attività intellettuali più adatte per la gioventù femminile dell’epoca. Giocare a scacchi, secondo il buon costume cinquecentesco, equivaleva a spendere la vita in modo virtuoso, impegnando la mente in un ottimo esercizio educativo. Di conseguenza, le tre sorelle Anguissola, nel loro essere intente a sfidarsi sulla scacchiera, divengono vere “regine” (tali e quali al pezzo degli scacchi accanto alla mano di Lucia) della nobiltà cremonese, ineccepibili sotto ogni punto di vista.
AUTORITRATTO AL CAVALLETTO
Se è vero che l’autoritratto per gli artisti è da sempre un modo per esprimere la propria interiorità, così come loro stessi la percepiscono, in tal modo quest’opera deve essere interpretata. Dunque, è di fronte al cavalletto, con in mano tavolozza e pennelli, che la giovane Sofonisba si vedeva. Non a giocare a scacchi come le sorelle, e neppure immersa nei libri. Tra tutte le discipline che aveva approfonditamente studiato (come richiedevano i dettami aristocratici), la pittura era la sua prediletta.
Ed eccola lì, mentre emerge da quello sfondo tenebroso, che ci induce a concentrare l’attenzione sul suo sguardo intenso, e su ciò che è intenta a fare. Sta giust’appunto dipingendo una deliziosa Madonna con Bambino; ma si è interrotta, come per accogliere l’osservatore e invitarlo ad avvicinarsi. I suoi occhioni blu paiono molto eloquenti…
Malgrado si tratti di un’opera giovanile, si nota grande bravura nella resa delle velature che scolpiscono l’incarnato del volto, rappresentato di tre quarti, come volevano i Fiamminghi. Il colletto e i polsini, di un bianco acceso, sembrano voler dare risalto alle sue mani: strumento fondamentale per ogni capolavoro pittorico. Sono proprio quelle mani, riprodotte con realismo accurato, che si sono volute autoritrarre per segnare in modo indelebile il loro talento artistico tutto al femminile.
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