Se dovessimo descrivere la produzione matura del Caravaggio con una sola parola, faremmo molta fatica. Definirla Realismo sarebbe troppo poco. Il Realismo, per noi contemporanei che abbiamo vissuto le epoche artistiche successive, è riconducibile subito alla realtà contadina di Courbet. Un Realismo schietto, ma non crudo e impressionante come quello caravaggesco. Certo, il suddetto francese non è così lontano dal Caravaggio, poiché lo stesso Roberto Longhi lo riteneva uno dei suoi successori. Tuttavia, il Caravaggio era qualcosa in più.
Perciò, concedendoci l’uso di non uno, ma di due termini, determiniamo l’opera del periodo maturo del Merisi come un Realismo Cinematografico.
… Cinematografico?! Aggettivo strano, per non dire assurdo, trattandosi di un pittore cinquecentesco. Nel XVI secolo, il cinematografo non era ancora stato inventato… giusto?!
Corretto, ma solo in parte. Nel 1500, ancora non si andava al cinema a vedere i film (qui sono serviti i Fratelli Lumière per fare la magia!), ma un certo concetto di cinematografo esisteva già.
Per fare luce su questo curioso argomento, cominciamo a fare luce su un’opera del Caravaggio particolarmente cinematografica: L’Incredulità di San Tommaso.
Lo spunto viene da una delle sue due versioni, recentemente proiettata, o meglio, esposta (visto che non è un vero film) nel museo della Permanente di Milano. Si tratta di quella triestina, ritenuta autentica al pari della sorella conservata a Potsdam, in Germania.
Ciò che subito colpisce l’osservatore è anche ciò che permette di compiere la magia del cinema: la luce. Qui, la luce crea la scena, e non è più la scena a farsi illuminare. Se non ci fosse la luce, non ci sarebbe l’evento. Se non ci fosse la luce, il San Tommaso non potrebbe infilare il suo dito incredulo nella piaga del costato di Cristo. È grazie a quel raggio penetrante che fa capolino da sinistra, che le tenebre si schiudono, lasciando quel tanto di spazio che basta al dispiegarsi dell’azione. In un attimo, il brano evangelico si compie; in un istante, ogni macchia di colore si carica di luminosità, e compone i quattro personaggi che compaiono in quello spazio non-spazio.
… Dove si trovano? Basandosi solo sulla tela, nessuno lo potrebbe indovinare. Tuttavia, c’è qualcuno che può darci qualche indizio ulteriore, per aiutarci a chiarire il mistero…
Roberto Longhi. Il grande studioso è celebre soprattutto per i suoi studi sul Caravaggio. Dunque, se ci affidiamo alle sue parole, anche noi potremmo fare luce sulla luce che prorompe nella scena di cinematografico realismo del Caravaggio.
Per il nostro storico dell’arte, il Caravaggio, tra i suoi tanti meriti, fu l’inventore del cinematografo, da intendersi come utilizzo della camera oscura per creare i suoi framespittorici. Non che avesse messo a punto lui stesso la camera oscura in quanto tale, poiché questa era allora materia di studio di diversi interessati all’ottica. Tra di essi, il nome di Galileo vi suonerà familiare, come suonava familiare anche alle orecchie del Merisi, che lo aveva incontrato mentre soggiornava in casa del Cardinal Del Monte.
Introdotto che fu a quest’appassionante argomento di lenti e luce, il nostro pittore pensò di applicare tali strumenti alla sua arte. E neppure in questo caso fu esattamente il primo: già i vedutisti facevano uso di lenti per proiettare la scena che dovevano ritrarre sulla loro tela, così da rispettare con precisione ogni dettaglio e proporzione. Tuttavia, il Caravaggio ha il merito dell’aver messo insieme tutti questi contributi e sua pennellata di estremo realismo, producendo fotogrammi da film, quando ancora non c’era un cinematografo con cui proiettarli.
Dovete immaginare il suo atelier un po’ come una grande camera oscura, come fosse quella della macchina fotografica. Buio pesto, e un fascio di luce che proveniva dall’alto. Le prove di questo suo sistema sono tangibili: il Caravaggio lasciò il segno concreto del suo cinematografo domestico…
Prudenzia Bruni, la proprietaria dell’appartamento che egli aveva affittato a Roma, in quello che era il Vicolo di San Biagio, dopo averlo sfrattato si lamentò di aver trovato un buco. Un buco sul soffitto. Certo, non sapeva che, nella sua casetta condominiale, il suo inquilino aveva messo in piedi una vera camera oscura in cui mettersi a dipingere i suoi frammenti di luce…
E così, facendo ordine su tutto quanto detto e raccontato, torniamo al nostro San Tommaso, che, anche in mancanza di prove, ci piace credere realizzato in quell’appartamento. Immaginatevi i quattro soggetti messi in posa all’interno della stanza buia. Immaginatevi il fiotto di luce che proveniva dall’alto, mentre bucava le ombre e permetteva all’artista di vedere e immortalare la scena. Dal fondo nero della tela (il Caravaggio partiva sempre con una superficie scura), le figure emergono solo laddove sono toccate dal fascio luminoso. Non si vede nient’altro che ciò che la luce compose in quel momento. C’è il volto corrucciato del San Tommaso, c’è il suo dito che si perde nella piaga, e c’è il corpo di Cristo tornato in vita. I quattro volti formano una croce, e ci consegnano un misto di emozione e incredulità che rimane in parte celata in ciò che mai sapremo. Il buio che buio rimase è buio anche per noi. Esattamente come avviene nel cinema. Anche lì, se il regista decide di lasciare in ombra una parte della scena (per non dire un intero periodo), noi non potremmo mai tornare là per scoprire quanto non ci è stato mostrato.
Luce… tutto si compie grazie alla luce. Il cinematografo proietta luce sullo schermo, e il Caravaggio allo stesso modo sulla tela. È in opere come questa che si apprezza il suo Realismo cinematografico. È in quel volto rivelato di Tommaso, e in quello celato di Cristo, che capiamo davvero cosa si intenda per quei fotogrammi di luce caravaggesca.
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