Fino all’invenzione della pittura a olio, avvenuta per mano dei Fiamminghi, nelle terre nordiche quattrocentesche, la tecnica più usata era la tempera. Tempera… all’uovo.
Da secoli, le preparazioni oleose erano celebri per il loro essere tanto vantaggiose, quanto ben scomode da utilizzare. Pensate che, per far asciugare quegli olii, occorrevano giorni e giorni (se non mesi!). Prima di poter concludere il lavoro, c’era il rischio che il pittore si dimenticasse persino che cosa doveva dipingere! L’alternativa a tempera, almeno, seccava più in fretta, malgrado avesse un risultato più scadente.
Poi, finalmente, giunse quella scoperta geniale dei maestri delle Fiandre: gli olii essiccativi di lino e di papavero. A differenza di quelli noti in precedenza, questi avevano la capacità di asciugare in ore, o al massimo in poche giornate. E, poi, aiutavano l’artista a mescolare pigmenti diversi, ottenendo risultati cromatici e luministici davvero eccellenti. La pittura a olio fiamminga fu una vera e propria rivoluzione tecnologica nel campo pittorico, al pari della macchina a vapore nell’industria.
A noi, però, interessa guardare a un passato più lontano, curiosando nelle botteghe dei pittori che ancora erano all’oscuro di tutto ciò. Pur con mezzi limitati, anche questi erano in grado di creare dei veri capolavori; semplicemente, avevano dovuto adattare le loro pratiche alle esigenze dei loro ausiliari dei colori. Vedetela così: se, con la pittura a olio, il pittore cominciò a dominare la materia, con la tempera era costretto ancora a esserne dominato. E, in pieno Medioevo e inizio Rinascimento, essere al servizio della tempera, significava sottomettersi ai capricci dell’uovo. Ancor meglio, all’estro pittorico delle galline.
… Confusi?! Forse un pochino, ma chiariremo tutto. Per ora vi basti di aver chiaro l’obiettivo: capire che, dietro un dipinto di Giotto o di Masaccio, prima ancora dell’artista, c’erano l’uovo e la gallina. Decidere chi venga prima tra questi ultimi due è una causa persa; perciò, teniamoli assieme entrambi, e infiliamoci in una di quelle botteghe fiorentine o padovane di pieno Trecento…
A farci da guida nelle ricette pittoriche a base di uovo abbiamo un vero e proprio manuale di cucina del mestiere: il “Libro dell’Arte” di Cennino Cennini, che la tradizione vuole fosse un allievo di un allievo di Giotto. Come avviene in ambito gastronomico, quando a un certo punto qualcuno decide di fissare su carta ingredienti e procedimenti (e qualche rara volta anche dosi), così accadeva tra i pittori. Soprattutto, avendo davanti una tecnica così complessa come la tempera. Sfruttando le utilissime informazioni forniteci dal suddetto Cennino, vediamo di capire come si cucinava un dipinto, prima dell’invenzione dell’olio di lino.
Tutto cominciava con una gita al mercato. Anzi, a due mercati differenti. Il farmer market di allora, meglio noto come il mercato dei contadini di piena campagna; il mercato del sabato mattina metropolitano, ossia le bancarelle messe in piazza dai produttori di città. Sottile differenza, ma essenziale. È qui che si vede l’importanza della gallina…
Come sottolinea bene il nostro Cennino, gallina di campagna non era uguale a gallina di città. L’esemplare campagnolo faceva le uova con il tuorlo rosso vivo, ideale quando si dovevano dipingere incarnati paonazzi e bruniti. Merito del suo razzolare libera e allegra tra i prati, e merito anche dei pranzetti prelibati che la fattoressa le cucinava. La collega cittadina, che se la passava in modo meno ruspante, produceva solo tuorli giallini e smorti. Perfetti per il pallore delle Madonne, ma forse non per il nasone di un vecchio ubriaco! Dunque, a seconda del soggetto che si doveva ritrarre, occorreva fare la spesa in un posto diverso.
Conquistate le uova, e portate integre all’interno della bottega, l’artista si faceva alchimista, e si metteva a distillare la sua pietra (tempera) filosofale.
Come avviene quando ci cimentiamo a fare la maionese (o lo zabaione), l’inizio era la parte più ardua. La separazione del tuorlo dall’albume è un’arte al pari della pittura a tempera stessa. Superato questo ostacolo, la strada era tutta in discesa.
Il suddetto tuorlo (si spera intero) veniva sciacquato per benino, e poi messo in un’ampolla vitrea, assieme a qualche goccia d’aceto. L’obiettivo era quello di renderlo più fluido, e di non farlo andare a male troppo in fretta.
Se pensate di essere già arrivati alla fase pittorica, vi sbagliate. L’artista medievale doveva allora preparare la sua tela. Tela, in realtà, è termine improprio. La tecnica a tempera prevedeva l’uso delle tavole di legno, inchiodate l’una all’altra, su cui i garzoni di bottega (il maestro non si sarebbe mai abbassato a simili fatiche!) procedevano a stendere il fondo.
Anche per questa base era necessario fare un giro nelle cucine: occorreva mescolare il gesso alla cosiddetta colla proteica. Cosa poteva fungere, ai tempi, da collante? Abbiamo l’imbarazzo della scelta: dalla cartilagine di coniglio, ai ritagli di pergamena, concludendo con le lische del pesce. Tutto materiale facile da reperire nel bidone dell’umido del Quattrocento.
Perché il fondo fosse ben fatto (e i garzoncelli non fossero bastonati dall’artista), doveva essere liscio come il guscio di un uovo. La perfetta regolarità della superficie era essenziale per una buona riuscita del lavoro, altrimenti i riflessi cromatici sarebbero venuti opachi e scadenti.
Asciutta che fosse questa imprimitura, veniva tracciato il disegno preparatorio, con quello che era l’antesignano dei nostri stencil per lo zucchero a velo. Noi usiamo queste sagome bucherellate per decorare di bianco una torta, i pittori facevano tanti fiorellini lungo i contorni del loro disegno su carta, per poi riprodurli con polvere di carbone sulla loro tavola.
E finalmente, giungeva il momento di prendere in mano pennelli e tavolozza. Ecco che il tuorlo d’uovo acetato (la tempera) veniva mescolata a piccole quantità di pigmenti, così da creare un colore ben fluido. Se si voleva fare una campita compatta, all’artista toccava passare più e più mani della stessa tinta, aspettando che lo strato precedente fosse asciutto. Per fortuna, il tempo di asciugatura della tempera non era quello dell’olio…
Forse vi sarà capitato di notare come, spesso, i colori siano molto semplici, e piuttosto primari. Dovendo rifare ogni volta i colori da capo (per ogni mano), era ovvio che i pittori non volessero rischiare di fare tonalità stravaganti, che magari la volta dopo non sarebbero stati in grado di riprodurre! Meglio andare sul sicuro, e continuare a fare i colori classici, dalla ricettaben nota…
Per ottenere quell’effetto lucido che si vede ancora oggi sui lavori migliori, la tecnica prevedeva innumerevoli strati, stesi con finissimi pennelli di vaio (ossia di scoiattolo), che evitavano l’accumulo di grumi di colore. Il tuorlo, per sua natura, tendeva a opacizzare le tinte; perciò, se si voleva un risultato ottimale, il tocco finale di verniciatura non doveva mancare.
Ed era qui, al termine di tutta questa ardua procedura pittorica, che tornava utile la parte restante dell’uovo. Come noi, dopo aver usato i tuorli per lo zabaione, impieghiamo l’albume avanzato per fare le meringhe (sperando che non si brucino…), così l’artista quattrocentesco non buttava via i suoi preziosi bianchi d’uovo. Un’alternativa valida alla resina per dare lucentezza al dipinto era proprio l’albume! Anche allora, gli avanzi della cucina erano sempre ottimizzati per fare qualcos’altro di buono…
Ora che sapete tutto sulla tecnica, ammirerete con occhio diverso tutti quei capolavori fatti a tempera. A noi, sembra già un’impresa titanica separare il tuorlo dall’albume… pensate che cosa dovesse essere per loro prepararsi i colori tutti i giorni! Non solo dovevano fare attenzione a non rompere il prezioso rosso, e a non farlo marcire, ma dovevano anche curarsi che provenisse dalla gallina giusta…
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