L’ARTISTA
Chiariamolo subito: il celebre piatto denominato “Carpaccio” deriva proprio da questo artista veneziano. Nel 1950, Giuseppe Cipriani, proprietario dell’Harry’s Bar di Venezia, inventò questo secondo a base di carne cruda, ispirandosi a un quadro del Carpaccio. Sosteneva che il suo colore rosso-violaceo ricordasse molto le tinte delle opere del piittore in questione. C’è chi azzarda addirittura un quadro preciso da cui ebbe origine l’idea: la Disputa di Santo Stefano, che oggi trovate a Brera.
Leggenda o realtà che sia, i rossi del Carpaccio continuano ad affascinare gli osservatori, e non soltanto quelli.
Dal breve incipit aneddotico, intuite che abbiamo a che fare con un artista singolare. Veneziano d’origine, il Carpaccio si colloca a fine 1400, in cui si concentrò la sua massima produzione. I primi tempi della sua carriera furono assai ricchi di commissioni e successi; poi, però, il pubblico di allora parve dimenticarsene, costringendolo a ripiegare in provincia…
Egli era figlio del mercante di pelli Pietro Scarpazza… divenuto “Carpaccio” in quanto italianizzazione della firma in latino Carpathius, che era solito apporre sui suoi quadri. Non sappiamo nulla della sua formazione; certo, però, ebbe modo di osservare da vicino i Fiamminghi, che pullulavano in ogni canale della Serenissima, e probabilmente anche Antonello e Mantegna.
La sua prima grande opera fu per la Scuola di Sant’Orsola, dalla quale fu incaricato di realizzare un ciclo di teleri in tema sulle storie dell’omonima santa. Questo fu l’inizio di un lungo elenco di Scuole veneziane che gli commissionarono ognuna qualche soggetto particolare, legato tanto alla loro storia, quanto alla quotidianità lagunare. In ogni dipinto, infatti, si vede sempre questa duplice faccia che unisce sacro e profano, passato, e contemporaneità. I personaggi biblici si fanno veneziani dell’epoca, e parlano a una folla di aristocratici in abiti secolari.
Con l’arrivo del Cinquecento, il povero Carpaccio si ritrovò relegato in sordina, a causa dell’emergere di nomi un po’ troppo ingombranti, quali quelli di Leonardo, Girgione, Tiziano e Lotto. Non avendo le capacità per rinnovare la sua arte, adattandola alle nuove mode, sprofondò nel suo glorioso passato, etichettato come un pittore troppo arcaicizzante.
A qualche secolo di distanza, possiamo (in modo più critico) riprendere dal dimenticatoio questo artista veneziano che, nel suo campo, raggiunse risultati straordinari. Purtroppo, visse troppo a lungo, e vide perciò il cambiamento dei gusti del suo pubblico… altri non ebbero questa sfortuna. Prendiamo, dunque, il nostro Carpaccio per quello che era nella sua epoca d’oro di fine ‘400, e apprezziamo il suo raffinato vedutismo cosmopolita come si deve.
LA SUA PITTURA
Ciò che divenne Canaletto nel 1700, Carpaccio lo era (a suo modo) tre secoli prima. Il vedutismo tanto caro all’aristocrazia europea in viaggio in Italia durante i Grand Tour, già si poteva ammirare nei teleri di questo artista quattrocentesco.
Le migliori opere del Carpaccio sono quelle ricche di ambientazioni dell’epoca. Venezia affolla gli sfondi delle sue scene sacre, così come quelle che immortalano la sua quotidianità. Il nostro autore doveva avere un ottimo spirito di osservazione, nonché una conoscenza approfondita delle tradizioni e delle simbologie di tutti quei popoli che affollavano gli angoli della Laguna. Se analizzate attentamente i dettagli che arricchiscono le opere commissionate dalle diverse scuole e confraternite veneziane, noterete in ciascuna qualche rimando ai soggetti destinatari. Talvolta si tratta di motivi e scritte ebraiche, talvolta invece di piante e animali dal duplice significato. Ogni telero diventa occasione per indagare tutti quei piccoli particolari, apparentemente casuali, ma in realtà ricchi di senso.
Quasta sua propensione per il dettaglio era di derivazione fiamminga, appresa probabilmente guardando al materiale disponibile a Venezia in quell’epoca. Gli interni descrivono minuziosamente la vita della sua contemporaneità, con gusto nordico, e ancor più antonelliano. Come il pittore messinese, anche il Carpaccio fece uso della prospettiva (estranea ai Fiamminghi), integrando l’arte straniera con le conquiste italiane di Mantegna e Piero della Francesca.
Il critico Argan descrive la pittura carpaccesca come un qualcosa che “vede e comunica ciò che si vede”. Uno stile descrittivo, narrativo, che non insegna a pregare, ma restituisce un racconto della quotidianità veneziana di fine Quattrocento, unendo elementi reali, fantastici e orientali. Il suo è un vedutismo, che avvalora tutte quelle “cose” che riempiono lo spazio, privilegiandole rispetto ai rigori geometrici della prospettiva.
LE OPERE
PRESENTAZIONE DELLA VERGINE AL TEMPIO (BRERA)
Questo telero, assieme al suo compagno che trovate a pochi centimetri di distanza sulla stessa parete della Pinacoteca, faceva parte di un ciclo più vasto. Tutto il complesso era dedicato alla narrazione delle storie della Vergine, e fu commissionato dalla Confraternita veneziana degli Albanesi. In origine, la loro funzione era quella di decorare la Sala dell’Albergo della loro sede.
Dall’impegno non eccessivo che il Carpaccio dedicò alle fattezze dei volti (sono molto simili tra loro), capiamo che i committenti non dovevano essere troppo ricchi. È facile immaginare che egli avesse lasciato queste parti del dipinto alla sua bottega, che certo non aveva la raffinatezza della sua mano. Tuttavia, i colori e i curiosi dettagli da lui copiosamente inseriti nella scena ci ricompensano per le scarse caratterizzazioni dei personaggi.
Incredibile è la resa della veste del sacerdote del tempio, che sembra ricamata con ago e filo. I motivi vegetali giocano con le ombre, conferendo volume e movimento all’anziano nell’atto di accogliere la Vergine.
Ai piedi delle scale, un bimbo sta dicendo qualcosa a uno dei due uomini accanto al prete… che stia chiedendo dove può parcheggiare la sua gazzella?!
Eh già: il Carpaccio non mancava mai di includere insoliti rimandi al mondo esotico anche nelle scene di tematica sacra. Malgrado qui si narri la presentazione di Maria al tempio, possiamo vedere in primo piano una bella gazzella e un coniglietto dalle lunghe orecchie di cotone. Potrebbero quasi essere i co-protagonisti della scena…
SPOSALIZIO DELLA VERGINE (BRERA)
Stesso ciclo pittorico, stessa ubicazione, e stessa committenza dell’opera precedente. Qui, però, il legame del telero con la Confraternita degli Albanesi è molto più evidente. Il Carpaccio fece sfoggio della sua raffinata conoscenza della tradizione ebraica, con tutti i suoi simboli e rituali. Se guardate con attenzione il setting della scena, riconoscerete il candelabro a dodici bracci (tipico dell’Ebraismo), e un’accurata riproduzione della menorah.
Non mancano gli scalini dell’altare, minuziosamente impreziosito da ricami arabeggianti. Gli Albanesi, in quanto stranieri “esotici” spesso di passaggio a Venezia, erano parte integrante di tutto quel popolo orientaleggiante che si incontrava quotidianamente a passeggio per i canali lagunari. Il Carpaccio, da buon narratore delle vicende della sua epoca, amava infarcire le sue opere di rimandi all’esotismo che caratterizzava Venezia in modo preponderante.
Al di là della cornice spiccatamente ebraica, il soggetto del telero è quello dello Sposalizio della Vergine, narrato nei Vangeli Apocrifi. Come si trae dai testi, in quell’occasione Maria scelse Giuseppe come suo sposo, grazie al segnale che Dio le aveva mandato. Per decidere tra i tanti pretendenti (che vedete sulla destra in gruppo), fu dato a ciascuno un rametto; solo quello di Giuseppe fiorì, regalando alla vista un bellissimo fiore di oleandro.
LA DISPUTA DI SANTO STEFANO NEL SINEDRIO (BRERA)
Come vuole la tradizione, fu proprio questo telero a ispirare lo chef Cipriani dell’Harry’s Bar veneziano, quando creò il suo celebre Carpaccio. Il rosso acceso e tendente al bruno delle vesti dei personaggi gli ricordava il colore della carne cruda. Perciò, dovendo trovare un nome adatto al suo nuovo piatto, pensò bene di regalargli l’appellativo del pittore che l’aveva stupito: Vittore Carpaccio.
Quest’opera, a differenza delle altre due conservate a Brera, è di qualità infinitamente superiore. Considerando che l’artista era solito adattare l’impegno al pagamento promesso, capiamo che, qui, i committenti dovevano essere piuttosto abbienti. Altrimenti, non si sarebbe mai messo ad arricchire di così tanti dettagli lo sfondo, né avrebbe mai curato troppo i volti dei protagonisti. Invece, la Disputa di Santo Stefano è resa in modo molto coinvolgente: l’oratore ci sta guardando, quasi a esortarci ad ascoltare con attenzione. Attentissimi, del resto, sono tutti quei personaggi vestititi di nero che affollano il proscenio. Chi possono essere? Coetanei del santo, forse? A giudicare dall’abbigliamento, sembrerebbero più dei veneziani quattrocenteschi. Si tratta appunto dei membri della confraternita dei Lanai, che commissionò il telero al Carpaccio. Esso faceva parte di una serie di opere destinate alla Scuola di Santo Stefano, loro sede principale a Venezia.
La confraternita riuniva i lavoratori di lana della città, ed era solita riunirsi nella sagrestia della chiesa di Santo Stefano. Nel 1476, avendo ottenuto la concessione di costruire una cappella autonoma per celebrare le proprie funzioni, chiese all’artista di realizzarne il nuovo apparato decorativo. Il fatto che si tratti di un’opera dedicata a una Scuola di Lanai, si può desumere anche da un curioso dettaglio. Se guardate in basso a destra, accanto al pavimento del palco, vedrete una piantina dai fiorellini blu. Si tratta della borragine, che, per via della sua peluria ispida, veniva assimilata a certi panni di lana grezzi. Poiché questi stessi panni erano prodotti dai suddetti lanai, la borragine divenne presto il loro simbolo vegetale.
A partire dal soggetto religioso, il Carpaccio creò un capolavoro che mescolava sacro e profano, realtà contemporanea e fantasia, senza dimenticare un marcato tocco orientaleggiante. È così che attorno al Santo Stefano oratore si raccolgono i membri della confraternita, assieme a qualche dottore in turbante decisamente esotico. Passando allo sfondo, noterete un brulichio di figure che vivono nel loro quotidiano in modo del tutto ignaro di ciò che sta accadendo in primo piano. Potrebbero appartenere a un altro mondo, per non dire a un altro dipinto. Dove si trovino non è dato a sapersi; c’è il monumento equestre al Colleoni di Verrocchio, ma ci sono anche insoliti indumenti orientali, che ci portano lontano. È davvero un telero capace di incantare l’osservatore, per le sue storie fiabesche, e per i colori caldi e arrossati, che tanto piacquero al Cipriani.
MIRACOLO DELLA RELIQUIA DELLA CROCE A RIALTO
Più che davanti a un semplice telero, potremmo dire di essere innanzi a un libro di racconti di quotidianità veneziana. Come presto noterete, l’evento sacro risulta decisamente marginale, rispetto al rilievo che il Carpaccio volle dare alle piccole scene di genere della sua Venezia più pittoresca.
L’opera era parte di un ciclo destinato all’Albergo della Scuola di San Giovanni, ossia una sala piccolina, utilizzata per le riunioni della banca, in cui era conservata la reliquia vera. Qualche anno dopo la sua realizzazione, i proprietari decisero (decisione discutibile…) di tagliarne il pezzetto in basso a destra, poiché volevano aprirvi sotto una nuova porta. Il dipinto fu dunque amputato, e, poi, risistemato successivamente, ma in modo evidente e con scarso impegno. S vi chiedete cosa sia quella striscia scura, ora sapete la risposta.
Passiamo alla narrazione, cominciando con il miracolo vero e proprio, che dovrebbe essere il protagonista. La scena si svolge a Rialto; il ponte, allora di legno, è ben visibile a destra, con tutte le sue botteghe, e la folla che vi passa nel mezzo. È tale e quale rimase fino al suo crollo nel 1524, e ha ancora quella parte centrale sollevabile, che consentiva il passaggio delle grandi navi. L’evento in questione, però, è relegato in un angolino, in alto a sinistra, su una terrazza del Palazzo del Patriarca. Ed è giusto il patriarca, colui che regge con entrambe le mani il reliquiario contenente il pezzetto della Croce, e lo rivolge in direzione di un giovane dal corpo contorto. A testimoniare la miracolosa guarigione di quest’ultimo, troviamo una gruppetto di membri della confraternita, in abiti bianchi cerimoniali. Dallo sguardo stupito di uno di loro, capiamo che l’indemoniato sta guarendo, grazie all’effetto della reliquia.
Oltre alla cerchia disposta attorno al patriarca, ben pochi altri personaggi del dipinto sono consapevoli del miracolo in atto. Al pianterreno, solo due (una donna anziana e un giovane) mostrano segni emotivi di incredulità. Per il resto, la scena ci racconta una bella giornata di quotidianità veneziana, tale e quale era a fine Quattrocento.
In primo piano, tra gli uomini vestiti di rosso e nero, troviamo alcuni membri della Compagnia della Calza, che riuniva i giovani dell’alta società. Se aguzzate (molto) la vista, noterete uno dei cosiddetti “Valorosi”, che si distinguevano per uno stemma a forma di sirena a due code. Lo vede sul cappuccio, ricamato bianco su nero.
Lungo la riva della Riva del Vin, possiamo fare conoscenza di gente meno altolocata, legata al traffico mercantile della Serenissima. C’è un uomo che trasporta un barile di vino, e un altro che sciacqua il suo nel canale, tutti si affaccendano nei loro impieghi abituali, e pensano ben poco a ciò che sta avvenendo qualche centimetro di tela più in alto.
Ricordando, come al solito, il cosmopolitismo veneziano, Carpaccio non manca di includere anche qualche turco dal turbante, che aggiunge il sapore orientaleggiante a una composizione già molto ricca.
In primo piano, a destra, le gondole affollano le acque lagunari. Ce n’è una, in particolare, che ci dovrebbe incuriosire. Anzi due. La prima è quella con il gondoliere di colore, con un bel paio di pantaloni a scacchi. C’è chi dice che sia la prima immagine di Arlecchino che la storia dell’arte può vantare. L’altra barchetta è quella con il cagnolino bianco sulla prua. Oltre a essere curioso in sé (vedere un cagnolino simile in un telero storico fa sempre un certo effetto), è anche legato a un’altra opera, molto distante dal Carpaccio. Si tratta di “Le Balcon”, dell’impressionista francese Manet. Cosa possono avere in comune due pittori così distanti?! Il cagnolino, senza dubbio, e poi chissà… Questo parallelismo fu notato da Roberto Longhi, che ebbe l’idea di fare un cortometraggio sul Carpaccio, per far conoscere l’artista al pubblico degli anni ’50, terminando lo spettacolo con un fotomontaggio che passava dal cagnetto del telero… al compagno di Manet.
Terminiamo il giro turistico della Riva del Vin, rivolgendoci a ciò che si vede sulla sponda opposta. Si tratta del Fondaco dei Tedeschi, da cui svetta anche il campanile della chiesa di san Giovanni Crisostomo. Tutt’attorno, la vita di Venezia prosegue indisturbata quanto lo è per i protagonisti in primo piano. C’è chi stende i panni, chi lavora sui tetti, e chi batte i tappeti alla finestra. E’ così che capiamo l’abilità del Carpaccio di rendere l’evento religioso un pretesto per imprimere nella memoria eterna tutti quegli spaccati di quotidianità che lo circondavano ogni giorno.
SANT’AGOSTINO NELLO STUDIO
Questa tela è la più celebre all’interno della serie commissionata dalla Scuola degli Schiavoni di Venezia, e risale ai primi anni del ‘500, quando il Carpaccio era ancora nei suoi anni d’oro di produzione.
Sant’Agostino è raffigurato seduto al suo meraviglioso scrittoio fiammingamente definito, mentre è distratto dal suo lavoro a causa di una luce intensa alla finestra. Si tratta dell’apparizione di san Girolamo, che sembra interrompere la redazione di chissà quali scritti di questo santo-umanista cinquecentesco. A giudicare dalle pagine vergate e piene di pentagrammi, era intento a comporre melodie; sono noti, infatti, i suoi interessi musicali. Tutt’attorno al protagonista si spargono libri preziosi, alternati ad altri curiosi strumenti. Appeso di fronte alla finestra c’è una sfera armillare; nello stipo in basso compare una clessidra.
Ma passiamo allo sfondo, su cui si aprono due portali gemelli e una nicchia. Uno dei due è stato lasciato aperto, concedendoci di scoprire che dentro vi si trovano altri libri e strumenti scientifici. Splendidi sono i giochi luministici, resi con una molteplicità di fonti luminose pari a quelle introdotte da Antonello da Messina, che a sua volta le aveva riprese dalle Fiandre.
Completa il quadretto il cagnolino in primo piano, che guarda attentamente Sant’Agostino, simboleggiando la fedeltà a Dio. A giudicare dall’aspetto, si tratta di un bel Volpino Italiano: una razza più volte immortalata nei teleri del Carpaccio.
DUE DAME VENEZIANE
Per moltissimo tempo la critica ha pensato che le due dame raffigurate fossero due cortigiane. Colpa del loro abbigliamento apparentemente un po’ troppo osé per l’alta società rispettabile dell’epoca. Studi successivi e approfonditi, però, hanno portato a superare l’idea originaria, in favore di una nuova interpretazione più signorile.
Per capire che si tratta di una coppia di signore veneziane aristocratiche (e tutt’altro che cortigiane), dobbiamo osservare attentamente i dettagli del loro abbigliamento, e del ricco bestiario di contorno. Partiamo dall’acconciatura: la tipica acconciatura a fungo, che era molto in voga presso le dame di fine Quattrocento. La sua fama fu però rovinata dall’uso eccessivo che ne fecero le cortigiane, come accadde anche a quegli abiti scollati (altrettanto comuni), in origine non soltanto una loro caratteristica distintiva…
Passiamo alle scarpe. Le nostre donne indossano le pianelle, ossia un particolare tipo di zoccoli rossi, che tanto si differenziano dalle zeppe delle prostitute.
Infine, il fazzoletto di lino bianco è un simbolo di castità, e fa da pegno d’amore di quello sposo lontano che la giovane in secondo piano sembra attendere con ansia. E la collana di perle, anche quella era un gioiello proibito per una cortigiana.
Tirando le somme, non abbiamo davanti a noi due cortigiane, ma una scena di raffinato amore coniugale. Lo testimonia anche l’arancia, emblema matrimoniale, così come il pappagallo e le tortore, entrambi simboleggianti la purezza della promessa sposa. Nel vaso a destra, si può notare il mirto: un arbusto assai comune nei corte nuziali.
La donna in primo piano è forse la madre, ed è intenta ad addestrare un levriero, stringendo al contempo la zampina di un altro cagnolino domestico. Anche questi animali ci rimandano al contesto del matrimonio, nel loro essere simboli di vigilanza e fedeltà.
Ma la cosa ancor più curiosa di questo dipinto del carpaccio si nasconde in quel vaso a sinistra, da cui spunta un giglio che non ha terminazione. O meglio, in realtà il suo fiore ce l’ha, sebbene sia ritratto in un’altra tela. Quale?…
Si tratta della Caccia in Valle (oggi al Getty Museum), da cui spunta proprio un giglio dai petali bianchi. Se mettete insieme le due scene, potrete interpretare il significato vero delle due dame. È come se stessero aspettando il ritorno del consorte della giovane, che si trova al momento a cacciare in Laguna. Azzardando una sua identificazione, potrebbe essere quello che è intento a scagliare con il suo arco una sfera di terracotta, per catturare lo svasso che emerge dalle acque.
SAN GIORGIO E IL DRAGO
Ci vogliamo concentrare sulla versione di San Giorgio meno nota tra le due realizzate dal Carpaccio. Questo dipinto ebbe la sfortuna di arrivare tardi, nel 1516, quando ormai la popolarità dell’artista era offuscata dall’arrivo dei nuovi maestri in voga. È questa l’occasione di ristorare tale mancanza, conoscendolo e apprezzandolo come si merita.
Il San Giorgio e il drago in questione fu realizzato per l’abbazia di San Giorgio Maggiore a Venezia, ed è un concentrato di simboli e iconografie di santi. Basta saperle individuare…
In primo piano, riconosciamo il suddetto personaggio che sconfigge il drago dagli occhi iniettati di sangue, in contrasto con lo sguardo dolce e innocuo del cavallo. L’evento è tratto dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, risalente al XIII secolo. I dettagli horror sono ridotti al minimo… quasi non si avverte la presenza della fanciulla con l’agnellino, il cui sacrificio fu evitato grazie all’intervento di San Giorgio. Dove si trova? È nascosta dietro un albero, sulla destra, a metà strada tra la scena principale e quanto sta accadendo nelle retrovie. Proprio nell’angolo citato è narrato un altro episodio biblico: la lapidazione di Santo Stefano. In quel contesto, c’è un attributo che rivela anche un altro santo ben noto, contraddistinto dalla spada sollevata. È San Paolo, ritratto prima della sua conversione, quando ancora era un pagano e persecutore dei cristiani.
Al centro osserviamo un vasto gregge di pecorelle, che pascolano a poca distanza da un rustico capanno. Il proprietario è un pastore, che simboleggia il monaco benedettino, dedito tanto al raffinamento dello spirito, quanto alla cura del suo gregge di fedeli.
Infine, a sinistra ci sono due eremiti. In alto riconoscerete San Girolamo (in veste di sapiente traduttore della Bibbia); in basso San Benedetto, colto nel momento in cui stava vincendo le tentazioni della lussuria, gettandosi in un doloroso cespuglio di rovi.
Riconosciuti tutti questi santi di sfondo, ci si potrebbe chiedere che cosa ci facciano in un’opera raffigurante San Giorgio, che doveva essere destinata all’abbazia a sua volta intitolata a questo santo. Ebbene, Santo Stefano si spiega per il fatto che egli fosse il secondo personaggio sacro a cui essa era dedicata. Gli altri due sono legati alla storia della chiesa nel 1516, anno in cui il titolo di abate passò da Gerolamo Spinola a Benedetto Marin. Capite bene come il Carpaccio avesse voluto nascondere nel suo telero un omaggio a entrambi i religiosi del convento.
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