Entrando nella sala XXXIV della Pinacoteca di Brera, si può avere un’idea di quelle che dovessero essere le tendenze artistiche della città nel pieno Settecento. Era l’epoca dell’Illuminismo, della riscoperta del passato greco e latino con il Neoclassicismo, del noto “Grand Tour”, intrapreso dai rampolli di tutta Europa. Milano, a quei tempi, si trovava a essere un centro cosmopolita almeno quanto le altre capitali del Mezzogiorno, quali Napoli e Roma.
Tuttavia, parlando di artisti, era al contempo sfornita di talenti autoctoni, costretta a importarne da altri luoghi d’Italia. Tra questi, compare il nome di Pompeo Batoni, la cui “Madonna con il Bambino e i Santi Giuseppe e Zaccaria, Elisabetta e Giovannino” è visibile tutt’oggi nella citata sala braidense.
Viene subito da chiedersi che fossi costui. Furono tanti gli artisti del Settecento, raccolti sotto il comune denominatore del “Grand Tour” o del Classicismo romano, da far passare i singoli nomi (e non solo) in secondo piano. Nondimeno, una volta identificato, verrà naturale ricordarlo come una sorta di “nuovo Raffaello” settecentesco.
Non a caso, il Batoni, di origini lucchesi, appena trasferito a Roma cominciò a studiare sulle opere di Raffaello e di Annibale Carracci. Dal primo apprese i colorismi vivi e la dolcezza delle espressioni; dall’altro le composizioni delle scene e l’animo dei movimenti.
La sua specialità, però, non fu subito legata ai temi religiosi (come era per Raffaello), quanto piuttosto ai ritratti. Ritratti di quei giovani aristocratici inglesi, che giungevano a Roma per una delle tappe più importanti del loro viaggio in Italia.
Vedendolo attivo e prolifico nel Lazio, ai frati girolamini della chiesa dei santi Cosimo e Damiano (un tempo vicino alla Scala) venne l’idea di chiamarlo su a Milano, commissionandogli una pala per loro. E il Batoni non fu l’unico a essere invitato in Lombardia: con lui, giunsero anche altri celebri nomi, quali Bellotto, Bottani, Tiepolo e Subleyras. In breve, il Classicismo romano fu esportato nella città milanese, lasciando testimonianze pittoriche di altissimo livello. A Brera, spiccano la pala di Batoni, realizzata proprio per i girolamini, e la compagna di Bottani, che era in origine destinata ad adornare lo stesso edificio di culto.
Se si osserva quella Madonna scaturita dal pennello del lucchese, avendo in mente (almeno un po’!) lo stile di Raffaello, lo si può ritrovare in quei colori particolarmente caldi e pastello, come in quelle espressioni, delicate all’inverosimile. Per non parlare, poi, del gruppo di angioletti racchiusi in una “mandorla” alla sommità: le loro pose riprendono molto l’originale raffaellita. Considerando che lo stesso Batoni si dichiarava speranzoso di diventare al pari del “divino Raffaello”, pittore da lui particolarmente amato, il legame tra i due appare ancora più lampante. Quest’opera specifica, poi, è sicuramente quella che più riprende il maestro rinascimentale; motivo in più per essere grati a chi la volle in Pinacoteca.
… E chi fu, dunque, a volerla lì, a Brera? Il soggetto in questione era Carlo Bianconi, segretario dell’Accademia di Brera a fine Settecento. Egli aveva capito come, ormai, i pittori romani come Batoni e gli altri suoi colleghi erano diventati un nuovo modello di stile da seguire. Si faceva, dunque, necessario avere qualche esemplare delle loro opere a disposizione degli studenti milanesi, perché potessero apprendere quel Neoclassicismo in piena diffusione. E così, fin dal 1797, anno di soppressione dell’ordine dei girolamini, cominciò a promuovere il trasferimento della pala di Batoni, riuscendo presto nel suoi intento. Grazie a questa volontà lungimirante di arricchire la collezione braidense con il dipinto di Batoni più raffaellesco, si può davvero apprezzarne il suo lato di “nuovo Raffaello”, quale, se lo credete, potreste oggi definirlo davvero.
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