Anguria, o cocomero?… Questo è il dilemma.
Questa era la domanda che faceva girotondo nella mente della Risolartista in quei giorni d’agosto. Domanda che, a dir la verità, tornava puntuale ogni anno, giusto quando le veniva voglia di andare a comprare un po’ di anguria. O un po’ di cocomero. Quel frutto lì, insomma…
Per tutto giugno e luglio, di solito, il problema non si poneva: non faceva così caldo da desiderare di rinfrescarsi con una fetta di anguria. E nemmeno con una fetta di cocomero. C’erano ciliegie e albicocche a profusione; e questo le bastava.
Agosto, però, era il mese dell’anguria. E del cocomero.
Ad agosto, prima o poi, la fatidica richiesta rivolta all’ortolano “Mi darebbe un po’ di… (anguria o cocomero), per piacere?” Doveva essere esplicitata.
E che cosa dire, dunque? Tutto dipendeva da chi si trovava davanti. Come sempre accade in questi casi, la scelta era sempre quella sbagliata. Se chiedeva l’anguria, le dicevano che avrebbero dato un cocomero. Se chiedeva il cocomero, lì vendevano solo angurie.
Conseguenza ne era che, quando l’estate ormai volgeva sul finire, ancora non aveva capito se avesse mangiato anguria o cocomero, né tantomeno che cosa avrebbe dovuto chiedere all’ortolano l’anno successivo.
Così, un bel mattino agostano in cui aveva voglia di tale frutto, decise di andare al fondo del dilemma.
Per prima cosa, pensò bene di interrogare l’esperto di gastronomia più esperto che conoscesse: il Gatto Cappelletto.
Questo, a sentire la domanda, rimase piuttosto sorpreso… di angurie, sul Trasimeno, non ne aveva mai viste. Lì per lì non seppe rispondere, e corse a immergersi nella sua biblioteca di libri di cucina, alla ricerca di qualche informazione al riguardo.
Meno male che, tra i tanti volumi polverosi, ce n’era anche uno che parlava di frutta. E che parlava di anguria. E di cocomero.
Il dilemma linguistico tanto ingarbugliato, in realtà, era molto semplice da sbrogliare. “Anguria” era il termine più diffuso al Nord, e derivava dal greco “Angurion”. “Cocomero”, invece, era universalmente noto nel cosiddetto “Sotto il Po”, e aveva l’origine latina di “Citrullus Vulgaris”. Malgrado le provenienze differenti, entrambe le parole significavano alla fin fine la stessa cosa: “Cetriolo”!
Quindi, volendo soddisfare ogni tipo di ortolano, della Lombardia, o dell’Umbria che fosse, il cliente dotto avrebbe dovuto chiedergli una fetta di quel particolare “cetriolo” dalla polpa rossa.
Probabilmente, se un cliente davvero avesse fatto ciò, sarebbe stato preso per pazzo.
E se ne sarebbe tornato a casa senza anguria, né cocomero.
L’unica alternativa per la Risolartista rimaneva quella di rassegnarsi all’ennesimo bisticcio linguistico, chiedendo anguria a Milano, e cocomero a San Feliciano. Tuttavia, chissà che non ci fosse qualcuno che, anche in piena Etruria, fosse in grado di venderle una bella anguria…
Lo avrebbe scoperto presto. Quella mattina di agosto era uscita giusto per andare a comprare sia un’anguria, sia un cocomero. Ed era più che determinata a riuscire nell’impresa.
La Risolartista, infatti, non si fidava troppo dei manuali di gastronomia. Se c’erano due nomi, ci dovevano essere almeno due soggetti diversi a cui poterli attribuire.
Era convinta che, malgrado le evidenze, anguria e cocomero potessero avere sapori e colori diversi. Altrimenti, non sarebbe mai nata la necessità di inventarsi due nomi altrettanto differenti!
E, se anche le cose non fossero state così, ci dovevano pur essere due angurie (o due cocomeri) sufficientemente distanti per gusto e tonalità l’una dall’altra, da poter essere chiamate (almeno da lei) una “anguria” e una “cocomero”.
Dopo tutto, capitava di vedere accanto al cartellino del fruttivendolo che aveva scritto anguria (o cocomero), dei soggettini un po’ diversi tra loro. Non che ci avesse mai fatto troppo caso (l’argomento le era sempre stato piuttosto ostico da affrontare), ma si ricordava di aver notato qualche differenza.
Ad esempio, ogni tanto gli esemplari erano enormi, e dalla buccia striata. Altre volte, invece, erano piccolissimi, quasi mono-porzione. E, altre volte ancora, avevano la scorza scura e uniforme, e la forma tonda tonda. Insomma: la varietà non mancava nemmeno nel regno delle angurie (o dei cocomeri)!
Tanto più, visto che questo frutto doveva essere davvero antichissimo. Già lo avevano disegnato gli Egizi nei loro geroglifici; ed era persino citato nella Bibbia. In quest’ultima, in particolare, gli Ebrei assetati nel deserto rimpiangevano quelle belle angurie (o cocomeri) che avevano mangiato in Egitto.
Nel corso dei secoli, almeno un paio di varietà dovevano essere state scoperte…
Con tutti questi giri e rigiri di pensieri al sapore di succo di anguria e di cocomero, la Risolartista pensò bene di cominciare la sua caccia dagli orti in riva al Trasimeno.
Giunta in mezzo al campo dei Verdi Orizzonti, andò alla ricerca delle sue amiche contadine più che contadine.
Passeggiando tra le zolle, finì per trovare gli oggetti della sua “analisi di mercato” prima ancora delle loro coltivatrici.
Era appena inciampata in quella che doveva essere un’anguria, o un cocomero. Non sapeva davvero come chiamarla.
Si trattava di quella curiosa varietà tutta tonda e verde scuro, che pareva del colore dei pini montani. Chissà come avrebbe dovuto chiederla alle sue amiche… non aveva proprio idea di come loro stesse la chiamassero.
Quando finalmente le ebbe trovate (intente a raccogliere zucchine), si decise a fare la sua fatidica domanda.
“Posso avere quell’anguria tonda laggiù?”
Nessuna risposta, ma due facce di contadine più che contadine assai confuse.
“Posso avere uno di quei cocomeri tondi, verde bottiglia, che crescono nella zolla là in cima?”
Entrambe si illuminarono, rispondendo affermativamente.
Era evidente che, nei Verdi Orizzonti, non crescevano angurie, ma cocomeri. E la situazione, lì, era lampante: se un cliente “nordico” chiedeva un’anguria, poteva anche accadere che si vedesse rifilare un melone. Certo, non un’anguria come la intendeva il povero cliente…
Dunque, il cocomero conquistato nell’orto in riva al lago, sarebbe stato il “cocomero” per definizione nel dizionario della Risolartista. Tondo, verde scuro, e, come dicevano orgogliose le due contadine, senza alcun fastidioso semino all’interno. Una volta delineate per benino queste caratteristiche, non si sarebbe più sbagliata…
Ora che aveva nel cesto della biciclettina fragolosa il suo bel cocomero color bottiglia e molto profumato, doveva solo recuperare anche un’anguria.
Come facilmente intuirete da tutto il discorso appena fatto, trovare un’anguria (o qualcuno che sapesse cosa fosse) sul Trasimeno non era così scontato.
Ritornata in paese, la Risolartista fece un primo tentativo da Bussolini.
Tentativo vano.
Niente angurie: solo cocomeri in vendita.
Sorpresa di non aver raggiunto il suo obiettivo di caccia nel supermercatino della piazza (che di solito non la deludeva mai), era quasi sul punto di desistere. In fondo, la sua pretesa di trovare un’anguria sotto il Po era testarda, quanto irrealizzabile…
Visto che era giovedì, il Signor Sergio era ancora lì di fronte con il suo furgoncino dell’ortofrutta. Valeva la pena di fare anche quell’ultima prova; giusto per togliersi lo sfizio di averci almeno tentato.
Di nuovo, la fatidica domanda (adattata al contesto) venne pronunciata:
“Salve Signor Sergio, posso avere un pezzo di quell’anguria piena di semini?”
“Certo, quanta ne taglio?”
Incredibile: il Signor Sergio aveva capito. E aveva risposto. L’anguria rientrava tanto nel suo vocabolario di fruttivendolo, quanto tra i prodotti del suo bancone.
Bisogna ammettere che, tra sé e sé, nel sentire la richiesta di “anguria”, aveva commentato il fatto che la Risolartista fosse proprio una “milanese” inconfondibile…
Per fortuna, però, che il Signor Sergio era un poliglotta in materia di frutta. Da bravo mercante che tentava sempre di soddisfare le sue clienti, cercava di avere prodotti per tutti i gusti.
… E per tutte le lingue, aggiungerei!
Ecco, dunque, che dal Signor Sergio la Risolartista era riuscita a conquistare anche un esemplare (o meglio, un quarto) di anguria.
Un esemplare diverso rispetto al cocomero tondo e verde scuro. Un esemplare, che, nel suo dizionario di artista, sarebbe andato sotto la denominazione di “anguria”. In questo caso, si parlava di scorza striata, a righe verde-giallo e verdolino più scuro, e di polpa più rosata e popolata da tanti piccoli semini neri. Non era altro che l’anguria che sempre aveva visto nelle sue estati milanesi. L’anguria “anguria”, insomma.
L’anguria “cocomero”, invece, era per lei una novità: prima di allora, non si era mai trovata tra le mani nessun curioso soggetto tutto verde scuro, e, soprattutto, senza alcun seme nascosto nella polpa. C’era un motivo valido per chiamarlo in modo diverso…
Con le sue due conquiste sotto il braccio, una da una parte, e una dall’altra, l’artista rientrò in casa. Era giusto l’ora di fare uno spuntino.
Da che cosa cominciare? Dall’anguria, o dal cocomero?
Questo era il nuovo dilemma.
Un dilemma che, a dir la verità, era di più facile risoluzione del precedente.
Due fette furono tagliate.
Una rosso scarlatto, senza alcuna macchia nera.
Una rosata, con screzi quasi aranciati, piena di semini scuri.
Entrambe furono accuratamente acquerellate e, infine, piacevolmente gustate. In fondo, tutta quella ambiguità di nomi aveva il suo lato positivo. Due erano i nomi, due le varietà, due i colori e due persino i sapori. Compatto e zuccherino il cocomero, succosissima e delicata l’anguria.
Qual era la migliore?
Questo era un dilemma irrisolvibile. Piuttosto, era meglio mettersi l’anima in pace, e rinfrescarsi le idee gustando quell’anguria al quadrato.
…O quel cocomero al quadrato.
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