Il nuovo barattolo di miele troneggiava sulla tavola della colazione.
Agosto aveva ormai superato il suo fatidico centro, volgendosi verso la sua consueta fine. Malgrado ciò, l’estate era ancora lunga, e i giorni in cui gustarne le delizie erano al pari numerosi.
Delizie, che cominciavano già all’ora della colazione, quando l’oro dell’alba irrorava la piccola cucina della casa lacustre.
Delizie, che assumevano spesso i colori di quella stessa alba dorata, e l’aspetto di una crema vellutata.
Delizie, che si potevano racchiudere in un barattolo, e conservare per mesi e mesi.
Delizie dolci e zuccherine… come il miele.
Ed era proprio un cucchiaino di miele, quello che la Risolartista stava mescolando al suo risolatte mattutino. Era bastato staccare il sigillo, e svitare il tappo metallico, per liberare un aroma fragrante e molto invitante. Il sapore, poi, doveva essere ancora più spettacolare…
Mentre quella crema morbida e luccicante scompariva nella tazza, amalgamandosi agli altri colori della frutta e del latte, pensieri pittoreschi si arricciavano attorno.
Lo spirito d’artista era incantato davanti a quel barattolo dal contenuto d’oro, che sembrava dipinto con quei toni ocra che piacevano tanto al Signor Vincent.
Il Signor Vincent, nella sua campagna provenzale, aveva più e più volte immortalato quelle sfumature così ricche di sole e di vita. Così ricche di gioia, di emozioni sottili, di giornate semplici, passate tra i campi e tra le case paesane. Le sue ocre e i suoi gialli limone erano spesso divenuti materia per scolpire girasoli ed erba secca sulle sue tele grezze di cotone. Bastava guardarli un attimo, per sentirsi l’animo colmo di dolcezza e di aria di Provenza; bastava un colpo d’occhio, e il tempo cambiava il suo corso, riportando alla spensieratezza delle estati passate tra le campagne profumate di polline.
Tutte quelle immagini, tutti quei colori, sembravano rimescolarsi nella crema dorata che aveva scritto sull’etichetta “miele”. Tuttavia, a guardarli bene, erano colori un po’ diversi.
Il Signor Vincent era pittore di colli di Provenza, la Risolartista era pittrice di colli perugini. Non c’era il mare della Costa Azzurra sui suoi sfondi, bensì la riva del Trasimeno, con i profili dell’Isola Polvese. Conseguenza ne era che, anche il miele, rispecchiava il giallo e l’oro di quel paesaggio etrusco assai particolare.
Quando fu riemersa dai suoi pensieri pittoreschi, il risolatte era ormai pronto per essere assaggiato.
Pareva ambrosia.
Di più: pareva un nettare degno di qualche divinità classica greca o latina. Anzi no, visto che si era in terra etrusca, quella colazione al miele poteva essere servita alla tavola di un re degli Etruschi.
In fin dei conti, proprio gli Etruschi erano grandi cultori del miele. Ed erano anche grandi apicoltori, molto abili nell’allevare le loro preziosissime api.
Giusto qualche giorno prima, la Risolartista aveva scoperto una cosa molto curiosa al riguardo. Una cosa che le faceva apprezzare ancora di più quel miele di terra etrusca, che si trovava in quel momento a gustare.
Gli apicoltori etruschi non erano solo ottimi produttori di miele, ma anche decisamente furbi. Per ottenere un nettare aromatico e millefiori più millefiori che potessero desiderare, avevano escogitato un brillante sistema. Di notte, mettevano le arnie sulle barche, e le trasportavano lungo i fiumi, o le coste lacustri, in luoghi vari. Al mattino, le api mellifere si svegliavano, uscivano dalle loro casette, e andavano a zonzo a mangiucchiare e fare scorta di polline. Una volta rincasate, si mettevano al lavoro a fare il miele e, sempre durante la notte, venivano spostate in un altro posto. In questo modo, ogni giorno il loro menù del pranzo offriva fiori e sapori diversi, che si traducevano, poi, in una sinfonia di aromi ineguagliabile.
Il miele che ne derivava doveva essere qualcosa di davvero delizioso!
C’era anche un’altra furbizia escogitata dagli antenati etruschi. Per capire quando le api avevano lavorato abbastanza da poter “smielare” le loro casette, e ottenere il prezioso oro zuccherino, non occorreva per forza aprire le arnie. Si poteva, piuttosto, guardare il livello raggiunto dalle barche sull’acqua: se queste sprofondavano più del normale, voleva dire che erano più pesanti del normale. E, se erano più pesanti del normale, voleva dire che… erano piene di miele!
Tali tecniche astute, pensava la Risolartista, potevano benissimo essere state applicate per secoli anche sulle rive del suo Lago Trasimeno. Gli Etruschi, infatti, erano stati abitanti di tutti i colli perugini che attorniavano lo specchio d’acqua. Va da sé che, vista la ricchezza di fiori e di polline di quelle terre, l’arte dell’apicoltura poteva dare ottimi risultati…
Il barattolo di miele aperto quel mattino era dunque una versione “contemporanea” del nettare etrusco. Con un po’ di fantasia, si poteva anche dire che fosse qualcosa di molto simile a quanto gli antenati impiegavano nelle loro ricette.
Come una piccola etrusca poteva addolcire la sua “puls” (un pastone simile a una polentina) con il miele dei colli perugini, così anche la Risolartista faceva con il suo risolatte. Erano passati gli anni, ma il sapore non doveva essere troppo diverso. La natura delle colline attorno al Trasimeno, in fondo, era rimasta piuttosto selvaggia e incontaminata. Una natura con fiori non così diversi da quelli che potevano trovare le api allevate dagli Etruschi.
Quali potevano essere quei “millefiori” che erano racchiusi nel barattolino contemporaneo (e antico)? Difficile rispondere così su due piedi… il gusto e l’aroma erano molto ricchi, ma poco dicevano delle loro origini. Il color ocra già aiutava un po’ più: si potevano escludere subito sia l’acacia (troppo chiara), sia il castagno (troppo scuro). Tuttavia, per poter andare a fondo di quel barattolo di miele, bisognava andare a esplorare i colli perugini, immaginandosi un’ape in cerca di polline…
Così fece la Risolartista, improvvisandosi ape operaia a spasso all’ora di pranzo.
L’etichetta del suo vasetto di miele dava un’indizio importante: “Millefiori dei Colli Perugini DOC”. L’area in cui andare a zonzo era piuttosto circoscritta, in quanto fuori dai confini dell’Umbria non si scappava. Però, a volerla girare tutta, un’estate di esplorazioni non sarebbe bastata. Inevitabilmente, doveva semplificare un po’ le cose, confidando che gli stessi fiori crescessero un po’ ovunque lì attorno. In fin dei conti, ciò che racchiudeva un barattolo di Millefiori era un mistero troppo dolce (e difficile) da poter svelare alla perfezione. Già un’idea abbastanza chiara sarebbe stata un grande risultato…
Perciò, l’ape operaia che si apprestava a personificare sarebbe stata un’ape lacustre. Un’ape sanfelicianese, per la precisione. Non si sarebbe, però, limitata ai soli fiori del paese, ma avrebbe spaziato nei dintorni, seguendo la costa, e risalendo le alture. Già le api etrusche erano ottime vagabonde; non c’era motivo per non esserlo a sua volta…
Il primo fiore in cui si imbatté, pedalando in direzione di San Savino, era il girasole. Inconfondibile.
Inconfondibile, era il suo aroma intenso e caldo, che ricordava le torte e i pasticcini di cui entrava a far parte sotto forma di olio.
Inconfondibile, era anche il colore: il contenuto del barattolo, infatti, era di quel giallo ocra, e quasi aranciato, proprio grazie alla sua dominante presenza.
Visto il numero di campi di girasole, e viste le tinte del miele in questione, si poteva concludere che, tra i “millefiori”, un buon terzo fosse riconducibile a lui.
La ricerca continuava sui colli alle spalle di San Feliciano, così da poter dire pienamente di aver analizzato i “colli” del perugino.
Su tali colli, colpiva subito tra l’erba un acceso violetto. Un violetto in forma di palline pelose, talvolta tendente al porpora, e talvolta all’indaco azzurrognolo.
Erano i cardi.
Erano quei fiori dal buffo cappello di pelliccia, tanto carini, quanto poco simpatici se si voleva fare conoscenza. Infatti, dalla radice ai petali, erano tutti pieni di spine molto dispettose, che graffiavano le gambe, e tiravano i vestiti. Non fosse stato per questo dettaglio, i cardi sarebbero stati tra i fiori dei colli perugini preferiti dalla Risolartista. Una volta privati delle spine, diventavano buonissimi se cotti al vapore e conditi con un po’ d’olio del Trasimeno. Erano una verdura a tutti gli effetti, e dal sapore che ricordava spiccatamente il carciofo.
Per fortuna, il loro polline non sapeva di carciofo; anzi: il miele di cardo era di solito molto aromatico, con sentori quasi di liquirizia.
Visto il numero di palline pelose che popolavano i dintorni, nel suo barattolo i fiori di cardo non dovevano mancare.
Sempre nella stessa zona crescevano anche vasti campi di erba medica. Era risaputo che piacesse molto alle api da includere nella loro dieta. Dunque, ecco un’altra componente certa.
Prendendo spunto dalle pratiche degli apicoltori etruschi, l’artista pensò di spostare la sua arnia (ossia la sua biciclettina fragolosa) lungo la costa, procedendo verso Monte del Lago.
Cambiando colli, cambiavano anche i fiori.
Comparivano ovunque ciuffi di tarassaco a contornare stradine e sentieri. Ecco un ulteriore elemento dal sapore caratteristico che rientrava nel bouquet dei millefiori. Merito suo era quell’odore forte di polline, che si sentiva sullo sfondo della fragranza del miele. La Risolartista lo conosceva bene: nel suo inverno milanese appena trascorso, infatti, aveva mangiato barattoli e barattoli di miele di tarassaco. L’avrebbe riconosciuto a metri di distanza!
Gira che ti rigira, era arrivata proprio l’ora di pranzo. Tuttavia, non essendo un’ape operaia a tutti gli effetti, malgrado avesse visto e raccolto un bel mazzolino di fiori, non poteva ritenersi sazia. Era ora di rincasare… di quei millefiori, ormai, i principali avevano un nome e un’identità.
Ce n’erano, però, ancora due da portare alla luce fuori dal barattolo di miele.
Due varietà da cui si ritrovò circondata mentre scendeva la collina lungo la famosa (famosa per gli autoctoni) Strada della Santocchia.
Uno era il rosmarino, e l’altro la lavanda. I giardini delle villette che si affacciavano sulla suddetta stradina ne avevano in enormi quantità.
Inevitabile, dunque, che le api locali dei colli perugini fossero andate ad attingere polline anche da quelle. Tanto più, visto che rientravano tra le piante preferite dalle amiche operaie a strisce.
Scoperti anche altri due di quei millefiori, lo spirito d’artista era davvero soddisfatto. Adesso sapeva a che cosa doveva pensare, quando mescolava il suo miele dei Colli Perugini DOC nel risolatte. In ogni cucchiaino, non c’era più per lei semplice “miele”. C’erano tutti i fiori delle colline attorno al Trasimeno. C’erano i cardi, l’erba medica, il tarassaco il rosmarino e la lavanda. Soprattutto, però, c’erano i suoi amati girasoli…
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